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FABBRICHE ITALIANE SETERIE E AFFINI COMO 500 AZIONI MILANO 1950

 

 

ID: 9

Certificato per 500 azioni cadauna di 200£ - Costituita il 22 dicembre 1906 in Milano.

L'industria tessile

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Tecnica (2013)
di Yasuhiro Ota

L’industria tessile
Nel confronto con l’agguerrita concorrenza di Paesi emergenti come la Cina, in questi primi anni del 21° sec. l’Italia ha saputo mantenere la propria posizione di vantaggio sul mercato globale, soprattutto nei segmenti collegati alla moda e ai beni di lusso. Sebbene quello tessile sia uno dei primi settori a svilupparsi nella fase di industrializzazione, non tutti i Paesi sono stati in grado di conquistare e conservare in questo ambito una posizione di prestigio; anche per l’Italia è stato difficile farlo, perché, persa la propria supremazia nel quadro dell’economia europea e nel mondo della moda, ha fatto il suo ingresso nel mercato globale in netto ritardo.

In questo studio vedremo come l’industria tessile italiana, seguendo un percorso avviato già alla fine della Seconda guerra mondiale, si sia rimessa attualmente al passo con quella delle economie avanzate, come, ad es., il Regno Unito o la Francia, e sia sopravvissuta nel confronto con i Paesi di recente industrializzazione. Un’ampia gamma di qualità e di prezzi caratterizza i tessuti, i quali trovano molteplici impieghi: nell’abbigliamento e nell’arredamento. Queste pagine si concentrano, in particolare, sui tessuti per l’abbigliamento, sulle caratteristiche della tecnologia italiana nel settore della produzione tessile e sul suo sostrato socioeconomico.

La tecnologia può essere distinta in tecnologia di prodotto e tecnologia di processo, entrambe alla base della competitività di qualunque impresa industriale. La prima riguarda la progettazione di un prodotto e si basa sulla combinazione di tre fattori: caratteristiche fisiche, funzione e significato del prodotto. La tecnologia di processo è, invece, collegata all’efficienza della produzione e della distribuzione, che hanno un impatto sulla qualità, sui costi e sulla consegna dei prodotti.

Dal 14° secolo alla metà del 19°

L’industria tessile italiana ha occupato una posizione di supremazia in Europa fin dal tardo Medioevo. Tuttavia, nel 15° e nel 16° sec., in Francia e in Inghilterra vennero alla ribalta nuovi poli di produzione tessile e, un secolo più tardi, questi Paesi estesero la loro egemonia sui mercati tessili internazionali, sia nel Nord dell’Europa sia nel bacino del Mediterraneo; di conseguenza, a partire dalla metà del 17° sec. città italiane come Firenze, da lungo tempo specializzate nella produzione tessile, andarono perdendo di importanza.

L’industria tessile italiana tra il 1650 e il 1850 fu caratterizzata da una serie di elementi tecnologici e socioeconomici: in primo luogo, la produzione tessile era localizzata nelle piccole città e nelle campagne e riguardava la lavorazione di panni di qualità medio-bassa; in secondo luogo, essa si basava in maniera preminente sull’impiego di manodopera femminile e minorile scarsamente qualificata e a basso costo e, per questa ragione, la meccanizzazione della maggior parte delle fasi di produzione era ancora molto ridotta; in terzo luogo, per poter disporre di energia idraulica e acqua, le protofabbriche e i laboratori dei tintori erano situati vicino ai fiumi.

In determinate regioni, tessitori e mercanti avevano la propria sede non lontano gli uni dagli altri. Nel caso della lavorazione della seta, che comprendeva la sua trattura, torcitura e tessitura, le attività nel settore della manifattura tessile con il più alto valore aggiunto erano concentrate a Como, nella parte settentrionale della Lombardia, e gran parte della produzione veniva esportata. All’inizio del 17° sec. molte famiglie contadine erano impegnate nella coltivazione del gelso e nella produzione di bozzoli di seta e si occupavano anche della trattura del filo di seta.

La produzione di tessuti in fibra vegetale, in particolare la canapa, era molto diffusa e rappresentava una forma di lavoro a domicilio a carattere stagionale (periodo invernale) per un consumo ristretto principalmente agli ambienti domestici rurali. Nei secoli successivi e prima dell’unificazione del Paese, la maggior parte della produzione di tessuto di canapa avvenne in fabbrica costituendo il settore con il secondo indotto più alto dopo quello della seta.

Anche dopo la crisi delle corporazioni tessili medievali presenti nelle città, alcune località della Lombardia, tra le quali Cremona, Monza e Busto Arsizio, continuarono a essere centri di produzione di tessuti in cotone; allo stesso tempo, le aree fuori dal controllo delle corporazioni, come Bologna, Chieri in Piemonte, Pistoia, Prato e Milano, diventarono nuovi centri protoindustriali. In questi due tipi di centri di produzione cotoniera, i commercianti organizzavano il lavoro a domicilio nelle zone rurali, come le pianure montane e le valli della Lombardia, dove la terra era generalmente arida, ma vi era grande abbondanza di risorse idriche.

La manifattura del cotone in Italia andò, tuttavia, riducendosi all’inizio del 19° sec. a causa della concorrenza delle industrie europee più avanzate. Come risultato di questo adeguamento industriale, nelle sole province di Milano e Como si concentrava l’80% di tutti i fusi per il cotone esistenti in Italia nel 1860. Come per altri settori, la forza lavoro nella prima metà del 19° sec. era fortemente centralizzata e, verso la fine del secolo, la meccanizzazione del settore raggiunse livelli tali da consentire l’integrazione verticale di molti dei processi produttivi.

Nel caso della produzione tessile della lana, Schio, Biella, Valdagno e Prato vennero alla ribalta come centri manifatturieri dopo il 1670. Alla fine del 18° sec., la produzione di panni di lana in Italia era tornata ai livelli precedenti la crisi del 1630.

Un centro di manifattura di panni di lana, Schio, utilizzando lana locale a buon mercato, si specializzò nell’imitazione del panno di lana prodotto a Verviers, nell’attuale Belgio, e nel Wiltshire, in Inghilterra, nonché in indumenti di lana cardata di media qualità. Biella, in Piemonte, divenne il principale centro italiano per la produzione di un tipo di panno spesso di lana mista di bassa qualità. In Toscana, la tradizionale produzione laniera fu trasferita a Prato, famosa per i suoi berretti rossi alla levantina, di cui Vincenzo Mazzoni (1740-1820) aveva iniziato la produzione nel 1788. Prato produceva tessuti in misto lino e di pura lana di bassa qualità molto ricercati per la loro economicità. Dopo il 1850, Prato iniziò a produrre tessuti di lana di recupero dagli stracci usati. Nel corso del 19° sec., la città si impose come terzo centro di produzione di tessuti di lana dopo Biella e Schio.

Nel settore della tecnologia e dell’organizzazione della produzione tessile l’Italia era rimasta indietro rispetto ai Paesi europei avanzati. Per es., agli inizi dell’età moderna la cardatura e la filatura dei panni di lana erano comunemente decentrate e molte donne e minori senza alcuna specializzazione svolgevano questo lavoro manualmente, con la conseguenza che i costi di cardatura e filatura arrivavano a incidere per il 20% sul costo totale della stoffa finita.

Nel settore della tessitura, le cosiddette protofabbriche di Schio e di Verona avevano cominciato a utilizzare, durante la seconda metà del 18° sec., grandi telai con spoletta volante per la produzione di stoffe pregiate; qui i salari dei lavoratori erano molto più alti di quelli dei lavoratori a domicilio. Al contrario, nell’ambito delle famiglie contadine veniva effettuata la produzione domestica di panni di lana e tessuti misti di bassa qualità. Dal momento che per la tessitura erano necessari vari tipi di telaio e competenze diversificate, questo lavoro era organizzato e controllato dai mercanti. Produzione domestica e centralizzata coesistettero nel corso del 18° e all’inizio del 19° secolo. I processi di tintura e di finissaggio, comprese la follatura, la garzatura e la pressatura, ma anche la tintura dei tops (nastri) di lana pettinata e dei filati erano molto più meccanizzati e venivano eseguiti da artigiani altamente specializzati impiegati in manifatture centralizzate, diversamente da quanto avveniva per i processi di cardatura e filatura nel 17° e nel 18° secolo. A Schio e Prato erano spesso piccole imprese indipendenti a effettuare il finissaggio.

L’Italia, arrivata in ritardo sul mercato, aveva bisogno di stabilire contatti con le regioni più sviluppate d’Europa, come la Francia, il Belgio e l’Inghilterra, per i tre seguenti motivi: in primo luogo, il mercato interno italiano era troppo ristretto prima dell’unificazione del Regno d’Italia nel 1861; in secondo luogo, gli imprenditori avevano modo di acquisire tramite tali Paesi informazioni sulle più recenti tecnologie, le tendenze della moda e le strategie di gestione, anche invitando esperti stranieri in Italia; infine, grazie all’esportazione, i clienti esteri assicuravano risorse finanziarie alle imprese tessili italiane, in particolare quelle della seta grezza e dei filati di seta. L’industrializzazione in Italia ebbe luogo principalmente nella parte settentrionale del Paese, che beneficiava di svariati contratti commerciali con l’Europa, poteva contare su una lunga tradizione manifatturiera, era ricca di risorse idriche e praticava la coltura degli alberi di gelso ​​e l’allevamento dei bachi da seta.

Nelle città in cui si concentrava la produzione, avendo risolto a lungo andare le problematiche tecnologiche ed economiche, alcuni imprenditori e le loro famiglie assunsero un ruolo significativo nell’applicazione delle nuove tecnologie e nella conversione verso la produzione di tessuti di maggior valore. Nelle aree settentrionali in cui si era sviluppata la produzione tessile laniera, tre famiglie di imprenditori – i Piacenza e i Sella di Biella, i Rossi di Schio – ebbero un ruolo di primo piano nel processo di industrializzazione.

Fondato nel 1733 dalla famiglia Piacenza, il Lanificio Piacenza, sotto la guida dei fratelli Giovanni Battista e Carlo Antonio (1779-1842), conobbe un importante momento di espansione con l’introduzione di tecnologie belghe e la creazione di una rete commerciale con il Regno Unito, la Francia e la Germania. In seguito, Giovanni Francesco (1811-1883), figlio di Carlo Antonio, lanciò sul mercato tessuti fantasia con motivi colorati, grazie ai quali il lanificio si affermò in un mercato dominato, fino a quel momento, dai tessuti in tinta unita. Nella metà del 19° sec., il Lanificio Piacenza assorbì altre fabbriche tessili, inserì nel proprio sistema le caldaie a vapore e costruì una grande fabbrica con residenze per gli operai.

Pietro Sella (1784-1835) introdusse nel 1817 a Biella i primi macchinari automatizzati (otto macchine per battere, cardare e filare la lana) che aveva acquistato a Verviers l’anno precedente. Negli anni Quaranta del 18° sec. il nipote di Pietro, Giuseppe Venanzio (1823-1876), cominciò a utilizzare i coloranti chimici e l’impresa si specializzò nella produzione di tessuti di alta qualità con muli di filatura (filatoi a lavoro intermittente).

A Schio, Francesco Rossi (1782-1845), che proveniva da una famiglia di facoltosi allevatori e che si occupava della vendita di lana grezza, fondò nel 1817, insieme a Eleonoro Pasini, il Lanificio Rossi, acquisendo i macchinari dalla Gelmi & Bosio, un’impresa tessile di Gandino che aveva adottato l’uso delle prime macchine per la cardatura e la filatura nel 1808. Suo figlio, Alessandro (1819-1898), realizzò l’integrazione verticale dell’impresa nel 1855.

A Prato, un costruttore di macchinari tessili, Giovan Battista Mazzoni (1789-1867), realizzò la meccanizzazione della lavorazione del cotone e della lana applicando le tecnologie provenienti da Paesi stranieri, come la cardatura e la filatura del cotone, alle fibre tessili prodotte da una gamma più ampia di materie grezze. Dopo la laurea presso l’Università di Pisa, Mazzoni aveva studiato ingegneria meccanica presso la Sorbonne di Parigi e aveva lavorato in alcune fabbriche tessili per acquisire esperienza pratica. Dopo il suo ritorno a Prato nel 1819, mise a punto, alla fine del 1820, alcuni macchinari per la filatura del cotone e li adattò alla filatura della lana tra il 1823 e il 1824; iniziò a utilizzare l’energia idraulica e si occupò anche dello sviluppo di altri aspetti tecnologici della produzione tessile come la tintura, la garzatura e il taglio del cotone nell’officina meccanica Sant’Anna. Negli anni Trenta del 19° sec. progettò una macchina per la rasatura del tessuto, costruì un telaio Jacquard e aprì una fonderia per la produzione dei componenti delle sue macchine. I suoi figli, Evaristo e Rodolfo, furono coinvolti nella fonderia come amministratori.

A Prato le macchine sfilacciatrici, che lo scozzese Benjamin Law aveva inventato nel 1813, fecero la loro apparizione tra gli anni Quaranta e Cinquanta del 19° sec. e la città divenne, quindi, gradualmente il più importante centro per la raccolta e la classificazione degli stracci.

Nelle campagne e nei piccoli centri, dove aveva luogo la produzione, il paternalismo dominava i rapporti tra imprenditori e operai. Pertanto, nonostante le condizioni di lavoro delle donne e dei minori fossero peggiorate, nella maggior parte dei casi gli operai del settore tessile, nel 17° e 18° sec., non organizzarono proteste; in Italia si preferirono soluzioni ad hoc, mediate solitamente dal paternalismo e da accordi locali piuttosto che dalle leggi dello Stato o da qualsiasi tentativo organico di regolamentazione del lavoro. Il cattolicesimo funzionò come elemento fondamentale di sostegno a livello locale, basato sulla beneficenza e l’aiuto forniti in seno alla stessa comunità. Così, ancora nel 19° sec. l’Italia non aveva visto il formarsi di una classe operaia urbana e il livello dei salari dei lavoratori non urbani era rimasto basso.

Dall’Unità alla Prima guerra mondiale

L’unificazione del Regno d’Italia nel 1861 rappresentò una grande opportunità di espansione sui mercati per i centri di produzione tessile, soprattutto delle zone settentrionali.

La guerra franco-prussiana (1870-71) privò Lione del controllo sul mercato e causò l’interruzione della produzione sul Reno. Di conseguenza, anche se la maggior parte della produzione di seta a Como avveniva in industrie rurali con telai manuali obsoleti, la sua manifattura godette di una stagione di grande prosperità, sebbene di breve durata: quando, infatti, queste imprese furono colpite dalla recessione, si dovettero arrendere alla concorrenza delle industrie straniere situate a Nord delle Alpi che utilizzavano telai meccanici.

Mentre la maggior parte delle manifatture nelle campagne preferiva ancora utilizzare i telai tradizionali al fine di ridurre al minimo la quantità di capitale fisso, un gruppo di grandi imprenditori decise di importare telai meccanici acquistati sui mercati svizzeri, tedeschi e inglesi e anche a livello locale ci furono alcuni tentativi pionieristici di introdurre nuovi macchinari. L’immissione di telai meccanici negli anni Ottanta del 19° sec. permise alle grandi manifatture di sostituire gli artigiani con donne e minori non qualificati. Fu il Nord-Ovest del Paese a essere il centro della nuova industrializzazione: sulla base del primo censimento industriale generale nel 1911, nei soli Piemonte e Lombardia si concentravano i tre quarti di tutti gli operai impegnati nel settore tessile.

È evidente che, alla fine del 19° sec., l’industria della seta conobbe profondi sviluppi a livello sia tecnico sia commerciale; il settore subì un processo di meccanizzazione e vide l’aumento del numero di telai. Inoltre, gli imprenditori trassero vantaggio dalla possibilità di rinvenire localmente la seta grezza a basso costo proveniente dall’Asia; questo, d’altra parte, determinò il rapido declino della coltivazione del gelso e della bachicoltura con la conseguente carenza di produzione interna.

Una volta superata la crisi degli inizi del 20° sec., l’industria della seta di Como intraprese una rapida meccanizzazione della produzione e, con l’adozione dell’energia elettrica, le fabbriche furono trasferite nelle pianure e nelle aree urbane, dove si formò una classe operaia che iniziò a prendere coscienza di sé attraverso scioperi e proteste. Allo stesso tempo, le seterie di Como passarono a produrre nuove varietà di seta, riuscendo a creare tessuti tinti in pezza che permisero loro di entrare nel mercato dell’alta moda. Nonostante questo, per quanto riguarda i tessuti fantasia, la maggior parte delle stoffe di Como erano imitazioni di quelle di Lione, perché la produzione di questa città era stata per lungo tempo superiore per raffinatezza a quella comasca. Inoltre, le industrie per la tintura e il finissaggio di Como non sapevano come adattarsi tecnologicamente al passaggio dai coloranti vegetali a quelli chimici. Nella fase iniziale di questo cambiamento, i tintori comaschi non ebbero la possibilità di usare coloranti chimici, perché i loro clienti preferivano ordinare la tintura con coloranti chimici alle fabbriche estere.

Poiché l’industria tessile laniera italiana, contrariamente a quella della seta, non era in concorrenza con le imprese delle economie avanzate, la maggior parte delle industrie italiane erano orientate al mercato interno. Verso la fine del 19° sec., l’industria laniera italiana entrò in una fase di modernizzazione e adottò cicli di produzione integrati verticalmente, diventando così una delle più grandi industrie italiane in termini sia di occupazione sia di produzione, anche grazie all’imposizione tra il 1887 e il 1965 di dazi protettivi perfino del 40%.

Il Lanificio Rossi di Schio è l’esempio di maggiore successo: mentre molte fabbriche non ebbero la possibilità di meccanizzare e incrementare la produzione a causa della scarsità di operai e delle loro rivendicazioni, questo lanificio, la cui direzione passò al già citato figlio di Francesco Rossi, Alessandro, fu un’eccezione, in quanto risultò in grado di aumentare la sua capacità di produzione e di ampliare la sua gamma di prodotti grazie alla modernizzazione. Nel 1872, al tempo della seconda International Exhibition di Londra, il Lanificio aveva 800 operai e 200 telai, con un ricavo annuo di due milioni di lire.

Alessandro Rossi era contrario all’intervento dello Stato, che si concretizzava, per es., nella normativa in materia di orario di lavoro e di impiego nelle fabbriche delle donne e dei bambini, e intendeva assumersi la responsabilità di gestire tali problematiche ritenendo che questo fosse un dovere morale degli imprenditori. Inoltre, dal 1889, la sua impresa aveva messo a disposizione degli operai strutture e servizi, tra cui biblioteche circolanti, cooperative, cucine comuni e forni, una banda musicale e ventuno associazioni per le attività nel tempo libero. Il suo comportamento paternalistico si basava sulla considerazione che l’Italia dovesse essere industrializzata in maniera da venire incontro alle esigenze degli operai. Un’impostazione completamente diversa rispetto a quanto avveniva in Inghilterra, dove erano molto forti i conflitti industriali e pessime le condizioni degli operai. Altre aziende, come, per es., il Lanificio Marzotto di Valdagno, seguirono l’esempio del Lanificio Rossi.

A Prato, il primo telaio meccanico venne installato presso il Lanificio Romei nel 1870, con vent’anni di ritardo rispetto al Lanificio Rossi di Schio. Nel 1888 la società austrotedesca Kössler & Mayer fondò nella città toscana il Fabbricone, la più grande fabbrica locale del tempo. Fu invece il Lanificio Calamai a installare il primo impianto di filatura meccanica di Prato, e la fabbrica cominciò a effettuare la carbonizzazione chimica degli stracci e l’asciugatura dei tessuti con le macchine. Il tessuto rigenerato realizzato rivaleggiava con quello dello Yorkshire, anche se la produzione di Prato si basava per la maggior parte sulla tessitura effettuata a mano. Nel 1908 il centro toscano si era sviluppato tanto rapidamente da avere più di cento fabbriche.

Il Lanificio Val di Bisenzio, fondato nel 1897 a Mercatale di Vernio, occupò una posizione di primo piano nel tradizionale settore tessile pratese fino alla sua chiusura nel 1960. Inizialmente specializzato nella produzione di capi di abbigliamento, coperte e tappeti, presto ampliò la sua produzione con la tessitura di tappeti in velluto di lana a motivi jacquard. Il Lanificio Val di Bisenzio fu anche il maggior produttore di tessuti di arredamento della città.

All’inizio del 20° sec. Prato produceva molte coperte e tessuti di arredamento per i mercati del Medio Oriente, dell’Estremo Oriente e del Sudafrica. Rispetto a Biella, la disponibilità di capitali da investire nello sviluppo industriale era insufficiente, ma anche lì, a partire dal primo decennio del 20° sec., sorsero grandi stabilimenti integrati, come La Romita. L’azienda produceva tessuti di diverso tipo e grammatura, concentrandosi sui tessuti rigenerati di stile tradizionale.

Dal primo dopoguerra alla Seconda guerra mondiale

Lo scoppio della Grande guerra influenzò l’industria italiana sotto tre aspetti. In primo luogo, si verificò una limitazione del commercio internazionale: per es., la riduzione dell’importazione di materie prime dall’estero comportò la riduzione dell’esportazione verso fabbriche estere di seta da tingere. Tali restrizioni commerciali indussero gli industriali a investire nella realizzazione di quei prodotti e di quei macchinari che in precedenza avevano importato da Paesi maggiormente industrializzati. In secondo luogo, sia sul mercato nazionale sia su quello estero, la manifattura della seta e l’industria meccanico-tessile italiane trassero beneficio dal ritiro dei concorrenti francesi, tedeschi e austriaci. Questo favorì la diversificazione della gamma di prodotti in seta e la loro esportazione dall’Italia. Infine, l’aumento del numero di ingegneri verificatosi nel periodo bellico contribuì allo sviluppo interno della meccanica tessile dopo la guerra. A Como, l’OMITA, la prima fabbrica locale a produrre macchinari tessili e accessori, contribuì fortemente alla modernizzazione del settore.

Con la fine del boom degli anni della guerra, l’industria della seta italiana soffrì nel 1920 e nel 1921 della crisi più profonda che avesse mai sperimentato dal momento dell’unificazione. Ciononostante, essa riuscì a registrare una crescita costante nell’economia in tempo di pace dopo il 1922. In quel periodo, si verificarono importanti innovazioni nell’industria tessile della seta: la messa a punto di fibre artificiali come il raion e la loro combinazione con la seta permise all’industria di realizzare le più economiche sete miste. Le nuove fibre erano importate dal Belgio e dalla Svizzera. Contemporaneamente, Como cercò di penetrare in nuovi mercati di nicchia come quello della seta per le cravatte e gli scialli. Esempi tipici di questa produzione sono le sete artistiche per cravatte di Guido Ravasi e gli scialli di Carlo Piatti.

Verso il 1925, alcune grandi seterie integrate, come l’Unione industrie seriche, la FISAC (Fabbriche Italiane di Seterie Alberto Clerici: una ditta milanese con fabbriche per la produzione di velluto e la tintura a Como) e la Tessiture seriche Bernasconi (le cui quote di proprietà erano detenute per la maggior parte da banche milanesi e comensi), si misero in evidenza attraverso l’acquisizione di altre società e l’apertura di nuove fabbriche. Nel frattempo, il numero dei telai a mano nell’industria della seta italiana era drasticamente diminuito.

Già nel 1926, tuttavia, le grandi seterie erano in difficoltà per via dell’aumento dei costi e la sovracapacità produttiva. Anche se la vendita di seta di alta qualità, come le sete artistiche, registrava una tendenza positiva, alcune delle grandi imprese integrate basate sulla tradizionale produzione per il magazzino di tessuti standardizzati di bassa o media qualità erano in difficoltà. Dopo la Grande depressione del 1929, queste grandi aziende andarono incontro al fallimento, o all’assorbimento da parte di altre industrie, oppure vennero salvate dall’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), ente istituito nel 1933. Al contrario, le piccole industrie decentrate con telai meccanizzati si adattarono con flessibilità a questa situazione di incertezza. Tale sistema di produzione era simile a quello delle manifatture lionesi. Anche le grandi industrie di tintura e finissaggio, che erano in possesso della tecnologia necessaria per lavorare grosse quantità di tessuti in fibra sintetica, misto seta e cotone, riuscirono a superare la recessione abbastanza facilmente.

L’industria della seta subì un cambiamento radicale con l’invenzione delle fibre artificiali; tuttavia, nel periodo in cui si cominciò a sperimentare l’uso di tali fibre, la maggior parte delle aziende seriche italiane, che si erano specializzate nella produzione di seta di alta qualità, non vollero trattare questi materiali di qualità inferiore. Di conseguenza, l’Italia non poté aumentare la propria quota di mercato negli Stati Uniti, la cui economia stava crescendo più velocemente di altre, poiché la seta italiana non veniva richiesta, come invece avveniva per quella francese, svizzera e giapponese.

Dopo la Prima guerra mondiale, le fibre artificiali furono introdotte progressivamente in Italia. Per produrre tali fibre erano necessari enormi investimenti, di conseguenza il mercato fu dominato da pochi grandi gruppi di imprese. La SNIA Viscosa (Società Navigazione Industriale Applicazione Viscosa) ebbe un ruolo importante nel portare la produzione di fibre artificiali a un livello di buona sostenibilità economica. Altre aziende tessili che utilizzavano fibre naturali come la seta entrarono in questo nuovo giro d’affari con la creazione di nuove imprese o divisioni perché la produzione di fibra tessile naturale e quella di fibra tessile artificiale sono molto diverse l’una dall’altra.

Queste nuove fibre erano spesso combinate con quelle naturali, in particolare la lana. Le fibre artificiali non erano solamente un semplice sostituto più economico delle naturali. Il mondo della moda parigina guardava con particolare attenzione al raion come a una fibra meno costosa che poteva essere trasformata in prodotti altamente innovativi. In Italia, la Mostra del tessile nazionale, tenutasi a Roma negli anni 1937-38, fu l’occasione per promuovere la sinergia tra l’industria delle fibre artificiali e quella della moda.

La produzione di fibre artificiali ebbe un rapido aumento nel secondo ventennio del 20° sec. e, nel 1935, l’Italia (con 31 stabilimenti di produzione e 24.000 addetti) produceva il 15% di tutti i materiali artificiali in Europa e ne era il terzo più grande produttore al mondo dopo gli Stati Uniti e il Giappone.

L’industria del cotone conobbe la sua massima prosperità durante questo periodo e diventò il settore più importante in termini di capitale, numero di lavoratori, macchinari, consumo di energia, valore complessivo della produzione e commercio con l’estero. Il comparto contava, nel 1932, 300 società a responsabilità limitata, rispetto alle appena 200 del 1901, e il loro capitale totale si era triplicato. In generale, la manifattura milanese del cotone era considerata come la prima manifattura su base industriale in Italia.

Alla metà degli anni Venti, la manifattura laniera italiana produceva tanto da soddisfare la domanda interna di filati e tessuti e quattro grandi gruppi (Marzotto, Lanerossi, Tollegno e Borgosesia) si distinguevano per la consistenza del loro capitale. Sebbene la manifattura laniera avesse all’interno del settore tessile una dimensione molto più ridotta rispetto a quella del cotone, l’Italia era il quarto esportatore di prodotti tessili cardati e pettinati dopo Regno Unito, Francia e Germania.

Il Lanificio Marzotto, fondato da Luigi Marzotto (1773-1859) a Valdagno (Vicenza) nel 1836, aveva avuto una forte crescita, in particolare dopo l’unificazione del Regno d’Italia. Nel 1866 l’impresa aveva adottato un processo di produzione integrato verticalmente che comprendeva cardatura, filatura, tessitura e tintura e, all’inizio degli anni Settanta del 19° sec., divenne la seconda azienda più grande tra i lanifici veneti dopo il Lanificio Rossi di Schio, con 300 dipendenti, 2800 fusi e 105 telai.

Vittorio Emanuele (1858-1922), nipote di Luigi e secondogenito di Gaetano Marzotto (1820-1910) e Anna Tomba, potenziò il Lanificio non solo con la costruzione di stabilimenti integrati verticalmente, ma anche attraverso la commercializzazione dei prodotti a livello mondiale. Dopo aver visitato le avanzate manifatture laniere in Francia, Belgio, Germania e Regno Unito, costruì, tra il 1885 e il 1890, un nuovo impianto a ciclo completo di cardatura e filatura. Lo scopo di questo progetto era non solo quello di avere una fonte di approvvigionamento per le successive fasi di produzione della stessa manifattura, ma anche di vendere tops, telette cardate e filati pettinati ad altre filature e tessiture di lana cardata più o meno grandi al fine di stimolarli a passare alla produzione di tessuti di qualità superiore. A differenza del Lanificio Rossi, che esitava a promuovere i propri prodotti a livello internazionale, negli anni Venti del 20° sec. Marzotto operò una campagna di vendita estremamente decisa nei confronti delle filature dell’area danubiano-balcanica.

Il figlio di Vittorio Emanuele, Gaetano (1894-1972), trasse vantaggio dalle difficoltà dei produttori tessili dovute alla Grande depressione e allargò le esportazioni verso l’Europa orientale, l’America Latina e le regioni del Mediterraneo. Nel 1935, la Marzotto acquisì 1000 ettari di terreno agricolo dalla famiglia Stucky al fine di assicurarsi la fornitura di lana per le proprie filature.

Nel 1910, Ermenegildo Zegna (1892-1966), all’epoca diciottenne, con i suoi due fratelli e un partner, fece il suo ingresso nell’industria laniera succedendo al padre nella piccola manifattura tessile dotata di quattro telai. Ermenegildo viaggiò all’estero per procurarsi le materie prime di origine pregiata e per vendere i propri tessuti, mentre la pubblicità del suo marchio cominciò ad apparire sulle riviste a partire dal 1918. La strategia vincente dell’azienda Zegna sulle manifatture inglesi che avevano il controllo del mercato fu la produzione di quantità ristrette di tessuti di altissima qualità.

Ermenegildo fu cosciente dell’importanza della responsabilità sociale della propria impresa, come lo furono anche i Lanifici Rossi e Marzotto. Nel 1929 Zegna diede inizio a un progetto di rimboschimento piantando 500.000 alberi sui fianchi delle montagne che circondavano il suo filatoio; in seguito, a partire dal 1932, costruì a Trivero strutture destinate alla comunità: un cinema, un bar-mensa, una sala da ballo, una piscina coperta, una palestra e un reparto maternità.

Mentre molti grandi lanifici risentirono pesantemente della Grande depressione, Zegna realizzò l’integrazione verticale per tutte le fasi della produzione e della distribuzione inaugurando negli anni Trenta i propri stabilimenti di filatura, tintura e finissaggio che permisero di tenere sotto controllo la qualità, i costi e la distribuzione delle merci. I grossisti tessili erano riluttanti a consentire ai loro clienti di rintracciare i produttori dei tessuti, per cui in genere era vietato alle manifatture tessili etichettare i propri prodotti. Nel 1932, tuttavia, Zegna cominciò ad apporre il proprio marchio sulle stoffe e a richiedere ai clienti che, anche dopo la trasformazione del panno in capi di abbigliamento, l’etichetta fosse mantenuta sul prodotto finale, con la conseguenza che la sua impresa riuscì a differenziarsi dalla concorrenza.

La strategia di Zegna sul mercato tessile fu molto ‘aggressiva’ e fu caratterizzata dalla promozione dei prodotti in numerose fiere e dalla realizzazione di una rete di distribuzione propria. I prodotti Zegna furono esposti alla prima Mostra nazionale della moda di Torino nel 1933 e all’Esposizione mondiale di Parigi Arts et techniques dans la vie moderne del 1937. Nel 1938, Zegna aprì la prima filiale commerciale italiana sulla Fifth Avenue a New York e al suo tessuto fu assegnato il primo premio all’Esposizione della Moda Uomo di New York del gennaio 1941. Nel 1939, presso il ministero delle Corporazioni, fu depositato il marchio Zegna per tessuti, filati e fibre di lana, seta, cotone e così via; inoltre, dal 1944, Zegna cominciò a produrre maglieria intima e, dal 1946, il marchio depositato comprese anche l’abbigliamento. Nel 1945, l’impresa aveva circa 1000 operai ed era presente sul mercato internazionale in quaranta Paesi.

Durante la Prima guerra mondiale, l’industria tessile pratese ricevette considerevoli commesse da parte dell’esercito italiano, soprattutto di tessuto per le coperte militari e per le uniformi. Dopo la guerra, la produzione si concentrò su stoffe cardate e pettinate tradizionali come melton, plaid, velluti, stoffe per coperture, lane doppia faccia, flanelle, cheviot e tessuti per l’abbigliamento da uomo e da donna. A partire dal 1936, l’industria della lana pratese cominciò a utilizzare le fibre artificiali come il raion.

La città di Prato subì gravi danni durante la Seconda guerra mondiale; alla fine della guerra, con 232 filatoi e 1331 telai danneggiati o distrutti, il 30% delle fabbriche tessili non era in condizioni di funzionare.

Il secondo dopoguerra: ripresa e ‘americanizzazione’

Durante il periodo della pacificazione nazionale, l’Italia si dovette confrontare con gravi problemi di ‘domanda e offerta’. A fronte di una consistente domanda mondiale di abbigliamento e di altri prodotti tessili, introvabili durante la guerra, l’offerta risultava limitata per carenza di manodopera, di macchinari e di valuta estera.

Prima del ‘miracolo economico’ degli anni Cinquanta, la ripresa in Italia fu possibile, dal 1948 al 1952, grazie all’European recovery program (ERP, conosciuto anche come piano Marshall). In questo periodo, le industrie italiane (le grandi imprese soprattutto) attraversarono un processo di modernizzazione e di ‘americanizzazione’ attraverso la fornitura di merci (materie prime, in particolare il cotone), di servizi (formazione e apprendistato in America) e di finanziamenti che permisero loro di importare macchinari avanzati dagli Stati Uniti.

Il sistema americano di produzione di massa non era adatto alla maggior parte delle aziende tessili italiane; nel caso dell’industria serica di Como, Luigi Morandotti installò 300 telai automatici e altri macchinari collegati nel suo nuovo stabilimento di Camerlata dopo aver visitato gli Stati Uniti per studiarne i processi di produzione. Nel frattempo, le piccole e le medie imprese o le aziende più grandi che producevano tessuti speciali continuavano ad acquistare le proprie attrezzature da industrie di macchinari tessili non americane come l’OMITA di Como, perché le fabbriche non avevano sufficiente spazio e denaro per installare i telai americani.

A Como, rispetto al periodo precedente lo scoppio della Seconda guerra mondiale, la produzione serica si era notevolmente diversificata; la città aveva subito danni meno gravi durante il conflitto e così molte imprese milanesi si erano trasferite in zona. Anche stilisti, tecnici, dirigenti e operai vi avevano stabilito le loro piccole aziende: tra queste vi erano quelle manifatture e quelle aziende di trasformazione (delle materie prime in semilavorati o in prodotti finiti) che si concentravano sul disegno, come Antonio Ratti (azienda di trasformazione) e Gianni Binda s.r.l. (tessitura), che si occupavano dei tessuti per il settore di nicchia delle cravatte, delle sciarpe e dei foulard, diversi dalle altre sete per gli indumenti, la biancheria per la casa e gli ombrelli. I tessuti chiné, che erano l’orgoglio delle manifatture di Como negli anni Cinquanta, continuarono a essere prodotti per un mercato di nicchia in cui veniva apprezzato un prodotto tanto raffinato e poco appariscente come i tessuti stampati da Callaghan, Verga e Clerici Tessuto.

Già durante il periodo della ricostruzione le manifatture tessili di Como cominciarono a esportare i loro tessuti negli Stati Uniti e, in particolare, nel 1960, quello della seta di lusso diventò uno dei principali mercati dei prodotti italiani; l’Italia aveva superato Lione e il valore totale delle esportazioni di prodotti tessili per l’abbigliamento italiani (molte varietà di seta di lusso) era di circa 35 milioni di dollari. Perfino alcuni stilisti parigini, come Jean Dessès, Madeleine de Rauch, Christian Dior, Jacques Fath e Hubert de Givenchy, acquistavano le loro sete a Como. Per ottenere sete e magline stampate in una straordinaria varietà di colori e disegni sofisticati gli stilisti si dovevano rivolgere alle manifatture comasche, come fecero Emilio Pucci e Ken Scott. Nel 1969 gli Stati Uniti, la Francia e la Germania assorbivano il 66% delle stoffe prodotte a Como per l’esportazione.

L’espansione del settore fu accompagnata dalla chiusura e dal ridimensionamento di grandi aziende seriche e dalla proliferazione di numerose piccole imprese al di fuori della città. Le grandi aziende che utilizzavano telai obsoleti si confrontarono con un aumento dei costi dovuto alla mancanza di flessibilità e di efficienza. Numerose furono le nuove piccole imprese fondate da ex operai con macchinari dismessi dai loro precedenti datori di lavoro. Dal 1951 al 1961 nonostante un 10,2% di riduzione del numero dei dipendenti, il numero di unità produttive aumentò del 20,6%.

Dopo la guerra, anche se l’utilizzo della lana diminuì in molti Paesi occidentali, la domanda e l’offerta mondiali subirono un aumento vertiginoso e costante. Soprattutto risultarono in rapida crescita in Estremo Oriente, nei Paesi produttori di lana e in Italia. L’industria tessile italiana della lana, una volta superate le difficoltà di accesso alle forniture di materia prima, si riprese e si accrebbe notevolmente a partire dai primi anni Cinquanta; il conseguente sviluppo della manifattura laniera la pose in concorrenza con le industrie omologhe in Europa.

I lanifici italiani più affermati si erano costruiti un’eccellente reputazione basata principalmente sull’eleganza dei loro tessuti. Ci sono varie interpretazioni del termine eleganza, ma collegato ai tessuti italiani questo termine è associato sia ai colori freschi e intensi sia alla leggerezza e alla raffinatezza.

Il motivo per cui questo tipo di tessuti viene prodotto in Italia è che le aziende tessili tengono in gran conto le caratteristiche sensoriali come l’aspetto, la leggerezza e la consistenza, e impiegano processi di produzione molto sofisticati. Nella produzione di filati e tessuti, i più raffinati produttori italiani adottano attente procedure nella lavorazione di materiali, come, per es., la scelta di non sottoporre le fibre a sollecitazioni eccessive, di far sì che le materie prime, filati e tessuti, riposino per un po’ e di procedere con la tintura e l’essiccazione a temperatura e velocità basse per esaltare al massimo le caratteristiche della fibra. Le aziende il cui obiettivo principale è la riduzione dei costi osservano solo i requisiti minimi nel processo di produzione, abbreviandone peraltro i tempi e, così facendo, causano la perdita di qualità della fibra, in particolare nel caso di fibre naturali come la lana.

Inoltre, i produttori italiani valutano con attenzione l’acqua utilizzata durante il processo di tintura delle fibre. Quella dolce è la più adatta e la sua disponibilità è una delle ragioni per cui l’industria tessile si è sviluppata in particolare nella penisola, dove, per es., i livelli di durezza delle acque dei fiumi che attraversano il Biellese sono più bassi di quelli di qualsiasi altro fiume europeo.

Nel settore dei tessuti rigenerati, a partire dagli anni Cinquanta l’Italia si era distinta come il più grande importatore mondiale di scarti tessili da riciclare provenienti da Stati Uniti, Francia, Paesi Bassi e Germania Ovest. Principale centro per la rigenerazione della lana, Prato sviluppò un’efficace procedura di cernita degli scarti tessili che permetteva alle manifatture di selezionarli e classificarli in base, per es., al colore, prima della carbonizzazione e della stracciatura. Attraverso la combinazione di fibre di diversi colori, le imprese tessili riuscirono a realizzare i colori senza tintura. Si è detto che le materie prime costituivano il 40% dei costi di produzione dei tessuti di lana e il prezzo della lana da scarti riciclati era meno di un quarto di quello della lana vergine. A Prato, la maggior parte della manodopera, che aumentò notevolmente a partire dal 1950 e nei due decenni successivi, proveniva dal Mezzogiorno. La produzione di tessuti rigenerati, tuttavia, andò diminuendo negli anni Settanta quando dai Paesi in via di sviluppo iniziarono ad arrivare prodotti tessili in lana vergine molto più economici.

Il miracolo economico e la nascita della moda italiana

Dato il grande prestigio degli stilisti parigini nell’alta moda, le tendenze in questo settore erano decise e diffuse da Parigi e per quanto nell’Italia fascista si fossero tenute delle fiere nazionalistiche, tali eventi non intaccarono la supremazia di Parigi. Anche dopo la Seconda guerra mondiale le case di moda italiane e le sartorie acquistavano modelli esclusivi da case francesi come Dior, Balenciaga e Fath.

Tuttavia, la moda italiana era alla ricerca di una nuova promozione internazionale; nella fase iniziale di tale movimento, i legami di collaborazione tra imprese tessili e disegnatori di moda non erano ancora consolidati né diffusi nei settori del tessile e dell’abbigliamento. Alcuni stilisti erano già in contatto con aziende tessili, in particolare con i setifici di Como, avendo utilizzato la loro stoffa per abiti da cocktail e da sera. In generale, comunque, i prodotti di seta italiani apprezzati a livello internazionale erano soprattutto gli accessori, come sciarpe e ombrelli e, nel caso dell’abbigliamento, la maggior parte dei capi di alta moda realizzati in Italia erano venduti con il nome di case francesi o americane.

Nel settembre del 1950, i produttori di tessuti di lana e gli stilisti d’abbigliamento collaborarono per una sfilata di moda dal tema ‘Sarti italiani e industrie della lana sfilano insieme’ in cui Biki (Elvira Leonardi Bouyeure), Vita Noberasko, le sorelle Fontana e l’azienda Rivella utilizzarono tessuti di lana di Marzotto, Rossi, Schio, Mabu, Zignone, Fila e di diverse imprese biellesi.

Nel 1951, la prima sfilata che presentò la moda italiana nello stesso periodo delle collezioni di Parigi e che coinvolse diversi settori dell’abbigliamento e dei tessuti fu organizzata da Giovanni Battista Giorgini (1898-1971) a Firenze, all’epoca importante centro di esportazione di prodotti artigianali, come quelli di pelletteria. Egli invitò all’evento, il First Italian high fashion show, giornalisti nordamericani e acquirenti per i più importanti grandi magazzini (tra cui I. Magnin), che veneravano la moda di Parigi, ma erano sempre alla ricerca di novità ed erano dotati di un senso molto concreto per gli affari. Tuttavia, di fronte alla prospettiva di scarsa adesione da parte delle case di moda italiane più conosciute, Giorgini invitò alcuni meno conosciuti ma emergenti creatori di moda italiana a prendere parte alla presentazione, con il risultato che case di alta sartoria (Carosa, Simonetta, Schuberth e Fontana a Roma, Veneziani, Vanna, Noberasko e Marucelli a Milano) e di moda-boutique (Emilio Pucci e Tessitrice di Capri) decisero di aderire alla manifestazione.

Gianni Ghini, un partner di Giorgini, favorì una serie di accordi formali, come quelli tra Lane Rivetti (lana) e Veneziani, Linea Lane (lana) e Vanna, Val di Susa (cotone) e Vanna, Bemberg (cotone) e Veneziani, Ital Viscosa (viscosa) e Marucelli, Costa (sete) e Carosa, Tondani e Marucelli, oltre a stabilire accordi informali con Legler (velluti), Radiatrice (nylon) e con un gruppo di produttori di seta, tra cui Terragni, Bedetti, Cognasca, Bernasconi e Ambrosini.

I creatori di moda erano spesso insoddisfatti della qualità e/o dei disegni dei tessuti italiani di cotone e di lana, al contrario delle sete, tradizionalmente utilizzate nell’alta moda. Per questo motivo, le imprese tessili italiane presto migliorarono la qualità dei loro prodotti, in quanto consideravano la collaborazione con i creatori di moda italiani una pubblicità estremamente efficace e a costo ridotto.

Dato che la moda italiana presentata alla sfilata proponeva uno stile boutique e capi di abbigliamento sportivi e per il tempo libero che erano più facili da indossare e meno costosi per i più giovani di quanto non fosse l’abbigliamento delle maisons francesi, la clientela americana accolse con favore queste collezioni.

L’industria emergente del prêt-à-porter e della moda boutique aveva catalizzato una notevole attenzione a livello internazionale e, di conseguenza, fin dalla metà degli anni Cinquanta, disegnatori e stilisti cominciarono ad assumere un ruolo chiave nel design tessile oltre che nella creazione di abiti. Per es., Emilio Pucci, assai apprezzato dai consumatori americani, si concentrò sulla moda da crociera utilizzando i tessuti stampati realizzati da Ravasi a Como. Altri stilisti italiani come Carosa, Germana Marucelli, le Sorelle Fontana, Jole Veneziani, Krizia (Mariuccia Mandelli), Gianni Versace, Franco Moschino ed Enrico Coveri, ma anche creatori di moda americani come Ken Scott, che aveva inaugurato i propri centri di creazione a Parigi e Milano, collaborarono con le aziende tessili di Como tra cui Costa, Tondani, Clerici Tessuto, Bedetti Pedraglio, Giuseppe Scacchi e Ravasi. Fu soprattutto nel settore della seta che le imprese tessili italiane collaborarono più spesso e più strettamente con i professionisti della moda.

Gli imprenditori italiani non solo invitavano costantemente acquirenti e giornalisti nordamericani in Italia, ma realizzavano continui viaggi di promozione negli Stati Uniti. Il rilancio del settore tessile italiano degli anni Cinquanta fu guidato dalle esportazioni, stimolate non solo dal successo della commercializzazione negli Stati Uniti, ma anche dalla progressiva abolizione dei dazi doganali e delle restrizioni sulle importazioni all’interno della Comunità economica europea (CEE) a partire dal 1959. Sul mercato europeo, la Germania Occidentale ebbe un ruolo fondamentale nel rilancio dell’Italia. A ciò si aggiunga che le aziende tessili italiane legate al settore dell’abbigliamento, come il Lanificio F.lli Cerruti dal 1881, avevano disegnato i costumi per gli attori di Hollywood sin dalla fine degli anni Cinquanta, e così facendo avevano efficacemente promosso i loro prodotti presso il pubblico di ogni parte del mondo attraverso i film, gli attori e le attrici.

L’utilizzo delle fibre sintetiche

Nei primi anni Cinquanta, con la drastica riduzione del loro costo di produzione, era diventato possibile produrre le fibre sintetiche, già utilizzate in via sperimentale prima della Seconda guerra mondiale. In generale, queste fibre erano realizzate con macchine per la produzione della lana e avevano caratteristiche che la lana non poteva avere, come la resistenza all’abrasione, la capacità di assumere forma plissé o cordonata e la stabilità della fibra. L’industria riuscì a realizzare tessuti che combinavano lana (cardata) e viscosa e lana (pettinata) e poliestere e, successivamente, sviluppò l’uso di altre fibre sintetiche tra cui il nylon, l’acrilico e il poliestere. A Prato, le manifatture tessili realizzarono tessuti di lana rigenerata più leggeri e resistenti mescolando le fibre sintetiche alla lana riciclata. In virtù della sua versatilità, la fibra sintetica sottrasse alla lana una parte sostanziale del mercato tessile.

Nel settore della seta le aziende più qualificate, quali Clerici Tessuto, Costa, Verga, Braghenti e Cugnasca, continuarono a produrre stoffe pregiate di seta pura come il taffetà, il gros grain e il satin, che richiedevano competenze più elevate e una maggiore quantità di lavoro per la loro produzione. Il creatore di alta moda Roberto Capucci ha spesso utilizzato questi materiali per i suoi abiti da sera. Lo chiné fu in particolare una delle tecniche che caratterizzarono i tessuti di Como negli anni Cinquanta.

L’industria della seta pura, tuttavia, era in fase di transizione; le importazioni di filati di seta erano ancora vietate e la seta era rimasta un bene di consumo ‘di lusso’, mentre la coltivazione del gelso e l’allevamento dei bachi da seta erano in declino. Nel frattempo, altre aziende seriche come Taroni, Fisac, Ones e Giuseppe Scacchi, puntando sulla perfezione tecnica di colori e disegni, proposero con grande intraprendenza prodotti in seta e fibra sintetica caratterizzati da consistenza particolare e maggiore leggerezza associate a costi più convenienti.

La trasformazione del settore tessile

Negli anni Cinquanta e Sessanta, la crescente importanza del ruolo dei disegnatori di moda e l’aumento della domanda di tessuti italiani dall’estero comportarono un cambiamento negli equilibri di potere nella filiera del tessile-abbigliamento. Stilisti affermati si dedicarono alla realizzazione di tessuti che venivano esclusivamente utilizzati per le loro collezioni. In questi casi, alla maggior parte delle aziende tessili non era permesso etichettare i tessuti utilizzati nelle collezioni dei disegnatori di moda e chi acquistava gli abiti giudicava il valore dei tessuti non sulla base dell’azienda tessile, ma dello stilista che aveva disegnato l’abito o utilizzato quel tessuto.

Poiché il mercato dell’abbigliamento era diventato più soggetto all’influsso della moda, il disegno tessile, la produzione e la distribuzione furono organizzati non dalle aziende tessili, ma dalle aziende di trasformazione, che avevano legami con gli studi di disegno tessile, gli stilisti e le fabbriche di abbigliamento.

In particolare, le aziende di trasformazione dei tessuti di seta di Como che collaboravano con gli studi di disegno indipendenti ebbero un ruolo fondamentale nella commercializzazione dei tessuti negli anni Sessanta; se nel passato esse si erano limitate a selezionare i campioni di diverse seterie e a proporli alle case di moda o ai disegnatori, in quel decennio cominciarono a collaborare con i disegnatori di abiti al fine di mettere a punto un assortimento di tessuti per la collezione di abbigliamento della stagione successiva. Come risultato, i nomi delle aziende di trasformazione che si erano impegnate nell’individuare i tessuti da utilizzare nelle collezioni di stilisti affermati apparvero sulle riviste di moda più spesso di quelli delle aziende tessili.

Non tutte le aziende di trasformazione che fecero da ponte tra stilisti e produttori tessili italiani erano di proprietà di italiani. La fornitrice principale di Yves Saint Laurent per la seta stampata era un’azienda svizzera, Abraham, che aveva lavorato esclusivamente con Ratti per i tessuti di alta moda e di prêt-à-porter fino al 1998 e poi aveva iniziato a lavorare anche per altre aziende tessili italiane.

A Como, dato che il disegno dei tessuti di seta era diventato più importante nel marketing della moda, i filatori, i tessitori e i trasformatori tessili ebbero bisogno di stringere legami di collaborazione per il disegno tessile e la tintura, per le fasi di stampa e di finissaggio al fine di aumentare il valore dei loro prodotti. Questo impegno comportava due strategie alternative. Alcuni produttori strinsero rapporti di collaborazione con i trasformatori e altri produttori complementari: questa catena di produzione in rete fu creata dai trasformatori che lavoravano in collaborazione con studi di disegno tessile e stilisti. Altri produttori raggiunsero una maggiore integrazione con forti investimenti, soprattutto nei settori della tintura e del finissaggio: per es., Ratti inaugurò un negozio di tessuti stampati a mano nel 1954 e iniziò a realizzare la stampa, la tintura e il finissaggio industriali nel 1959 per poi aggiungere la fotoincisione delle stampe nel 1961. Mantero, che si era già affacciato sul prestigioso mercato del prêt-à-porter nel 1956, completò nel 1964 la costruzione dello stabilimento di Grandate che integrava l’intero ciclo dalla tessitura al finissaggio.

L’altro grande cambiamento dei consumi nel settore dell’abbigliamento fu determinato dalla diffusione del prêt-à-porter negli anni Sessanta. Le aziende tessili furono coinvolte nella realizzazione di prodotti per le imprese d’abbigliamento industriali, che acquistavano una quantità di materiali assai maggiore e vendevano capi di abbigliamento con il proprio marchio. In questo segmento, le grandi aziende di abbigliamento e i grandi rivenditori al dettaglio conquistarono un forte potere d’acquisto nella distribuzione tessile e, per questa ragione, le imprese tessili non furono più riconoscibili per la qualità dei prodotti in quanto non potevano differenziarli da quelli della concorrenza etichettandoli.

Come tendenza generale, l’emergente mercato di massa dell’abbigliamento prêt-à-porter influenzò la domanda di vari tipi di tessuto su cui si erano concentrate un certo numero di piccole e medie case di moda e di aziende tessili. Questa tendenza fu favorita dal fiorire delle mode e degli ideali estetici degli anni Settanta, ma, rispetto al Regno Unito, la vendita di abbigliamento in Italia fu comunque dominata in misura inferiore dalla grande distribuzione, dalle cooperative e dalle aziende di vendita per corrispondenza. Industrializzate da poco, le aziende tessili, con operai a basso salario, non riuscirono a penetrare facilmente sul mercato italiano con grandi quantità di capi di abbigliamento.

Alcuni cambiamenti delle condizioni macroeconomiche, tuttavia, stimolarono riforme organizzative nel settore tessile italiano sia all’interno delle singole imprese sia nei rapporti tra le une e le altre. L’aumento degli oneri relativi ai contributi del regime previdenziale e pensionistico a carico del datore di lavoro e le forti tensioni con gli operai fecero mettere da parte l’approccio paternalistico e spinsero gli imprenditori italiani a diminuire il numero di dipendenti investendo in nuovi telai automatici. In aggiunta a questo, la recessione economica tra il 1963 e il 1967 determinò in Italia una brusca contrazione della domanda interna di prodotti tessili; ciò provocò danni significativi per l’industria, in particolare quella di Biella, che era la più dipendente dal mercato interno. Durante questo periodo, persero il posto di lavoro in questo settore circa 7000 lavoratori.

Dagli anni Sessanta in poi, le grandi imprese integrate verticalmente non costituirono un modello di successo nel settore tessile italiano e alcune di esse dovettero ricorrere a ingenti sovvenzioni statali per poter sopravvivere, circostanza che provocò accuse da parte di altri Paesi della CEE di concorrenza sleale. La ristrutturazione industriale comportò la frammentazione di grandi stabilimenti integrati che producevano merci standardizzate in una rete di piccole imprese specializzate. La maggior parte delle piccole aziende fu creata da ex operai di industrie tessili che le dotarono delle vecchie macchine dismesse dai loro precedenti datori di lavoro. Le piccole imprese specializzate, spesso gestite da singole famiglie con poche macchine, poterono raggiungere elevati livelli di produttività a costi inferiori, approfittando di una situazione che, con un basso livello di contabilizzazione e di remunerazione del lavoro familiare, presentava scarsi vincoli sindacali e legali ed evitava il pagamento dei contributi previdenziali e di altri costi sociali imposti dallo Stato. Alcune delle aziende specializzate avevano contratti di subappalto con le imprese più grandi, con rapporti in alcuni casi improntati sullo sfruttamento.

Tale ristrutturazione rese l’Italia fortemente competitiva, non solo nel settore della moda e sul mercato dei tessuti rigenerati, ma anche sui mercati tradizionali. Negli anni del dopoguerra, la produzione delle macchine per la filatura e la tessitura nella penisola era significativamente maggiore che in qualunque altra parte d’Europa. Ma la spinta inflazionistica e le tensioni sociali, economiche e politiche portarono all’‘autunno caldo’ del 1969, causando la fine del boom e l’ingresso negli anni Settanta, con l’inflazione e la stagnazione economica in un contesto internazionale di valute fluttuanti (crisi del dollaro con sospensione della convertibilità in oro nel 1971).

Le aziende

Il Lanificio Rossi, che per oltre un secolo era stata l’azienda più importante del settore, fu commissariato e divenne proprietà dello Stato, il che comportò una perdita di posti di lavoro e un nuovo nome, Lanerossi, nel 1962.

Marzotto aveva tratto enormi benefici dal piano Marshall e tentò di penetrare nel mercato americano, compiendo visite di promozione negli Stati Uniti. Marzotto si concentrava su prodotti ad alto valore aggiunto e nel 1951 e nel 1952 decise di iniziare la produzione di capi confezionati. Verso la fine degli anni Cinquanta aprì nuovi impianti specializzati nella produzione di capi d’abbigliamento in provincia di Vicenza, dove si trovava la sede della Marzotto, e anche nella zona di Salerno. Diversificò ulteriormente la sua produzione con l’utilizzo delle fibre acriliche ed entrando nel settore delle coperte. La situazione dell’azienda tuttavia si deteriorò e la società fu quotata alla Borsa di Milano nel 1961, anche se i familiari del fondatore furono autorizzati a detenere la maggior parte delle sue azioni.

Il Lanificio Ermenegildo Zegna si era costruito una solida fama nel settore dei panni di lana, soprattutto per l’abbigliamento maschile, ed è oggigiorno uno dei principali marchi italiani di moda per uomo. A partire dagli anni Cinquanta incorporò le fasi produttive verticali, compresa la pettinatura, con un approccio simile a quello adottato dal Lanificio Rossi e da Marzotto.

Tuttavia, negli anni Sessanta, a differenza delle rinomate, seppur in declino, grandi aziende, Zegna ristrutturò la propria produzione, concentrandosi con energia sulla produzione tessile interna. Conservando come processi interni la tessitura e il finissaggio, che erano fondamentali per garantire l’alto pregio dei prodotti, l’azienda decentralizzò i processi di filatura e di rammendo presso le imprese locali.

Zegna provò ad aumentare il valore aggiunto dei suoi prodotti, combinando le più preziose materie prime con sofisticate tecnologie di prodotto e di processo. Per es., nel 1961 presentò il 120.000 (Centoventimila), un tessuto estremamente leggero, poi istituì nel 1963 un premio per i migliori allevatori di lana merino australiana superfine (Ermenegildo Zegna Perpetual Trophy) e, tra il 1964 e il 1965, lanciò nuovi tessuti chiamati 18 MILMIL 18, 17 MILMIL 17 e Trofeo. Successivamente, nel 1968, Zegna presentò Parioli, un tessuto traspirante e antipiega di lana australiana e lana di capretto d’angora. Lanciò, inoltre, Tindari e Palinuro nel 1969 e istituì nel 1970 un premio per i migliori allevatori di capre d’angora in Sudafrica (Conte Zegna Mohair Trophy). L’azienda di Zegna si distingueva dalle altre grandi imprese che si concentravano sul mercato di prodotti omologati e di medio valore aggiunto.

Le nuove strategie dell’industria tessile

In comune con la concorrenza, l’economia italiana subì un periodo di stagnazione a causa dell’impennata mondiale dei prezzi del petrolio negli anni Settanta che comportò una diminuzione improvvisa della domanda e la fluttuazione del mercato dell’abbigliamento, insieme con un aumento dei costi di produzione nelle economie avanzate.

Nel mercato dei prodotti di bassa gamma, il maggior peso nei rapporti di forza all’interno della catena di produzione e vendita dell’abbigliamento si spostò dunque dai produttori alle aziende di grande distribuzione. Queste ultime avevano un enorme potere d’acquisto, fatto che permise ai loro fornitori di immettere sul mercato elevate quantità di merci a prezzi sempre più bassi. La loro strategia era in linea con il crescente mercato di massa dell’abbigliamento prêt-à-porter e con lo sviluppo del moderno sistema di grande distribuzione, che comprendeva la ricerca di canali di approvvigionamento dei prodotti estesa a livello mondiale. L’abbigliamento per il mercato di massa non doveva possedere particolari caratteristiche di qualità o di durevolezza e il movimento di integrazione del mercato globale e la delocalizzazione dei centri di produzione permise alle aziende del Nuovo Mondo non solo di penetrare più facilmente nei mercati delle economie avanza

 
 

 

 

 

 

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