Titolo: Miscellaneorum authore Carolo de Aquino societatis Jesu. Libri III

Autore: Carlo d'Aquino (1653-1737)

Editore: apud Hieronymum Mainardi in platea Montis Citatorii [Girolamo Mainardi]

Luogo di pubblicazione: Romæ [Roma]

Anno: 1725

Lingua: Latino; italiano

Edizione: 1ª [1725]

Formato: in-8° - 19*12 cm c.a. [Piena Pelle]

Pagine: [16] 265 [1] p. - ultima p. bianca


Note

· Ultima p. bianca

· Segnatura: *⁸ A-Q⁸ R⁴ χ¹

· Vignetta xilog. sul front.: giglio fiorentino in cornice floreale

· Iniziali, finalini e cornici xilog.



Comprende (Indice dell'opera):


LIBER I.


















LIBER II.













EX LIB. III.














Bel esemplare settecentesco, legato in una piena pelle bruna, ospitante nella sua prima edizione e senza mancanze l'intera produzione critico-letteraria del celebre erudita Carlo d'Aquino (latinizzato in Carolo de Aquino), professore di retorica, prefetto e “scrittore” del Collegio Romano. L'opera, scritta in latino affinché potesse essere letta anche in Europa, ma con i passi delle opere nostrane citate in volgare affinché lo stesso italiano, nelle sue forme più auliche, venisse esportato in Europa, venne intitolata “Miscellaneorum authore Carolo de Aquino societatis Jesu. Libri III”, pubblicata nel 1725 a Roma, presso i torchi di Girolamo Mainardi. A riprova del discreto successo che riscontrò, una seconda edizione inalterata venne pubblicata nel 1763, quasi 40 anni dopo.


Suddivisa in 3 libri, questi non sono altro che un generoso compendio dei suoi 3 volumi manoscritti, intitolati “Annotazioni varie sopra il più bello di diversi autori” (due in italiano, uno in latino), tutt'oggi custoditi nell'Archivio della Pontificia Università Gregoriana di Roma, redatti tra il 1670 e il 1725.

Per un totale complessivo di 33 capitoli (rispettivamente 14, 9 e 10), ogni capitolo presenta un argomento con uno o più autori letterari, filosofici, storici, classici o rinascimentali, sino a richiamare le posizioni o gli interventi di alcune personalità erudite del XVII secolo (principalmente di area italica, germanica e gallica): Dante Alighieri, Virgilio, Omero, Esiodo, Ovidio, Platone, Aristotele, Cicerone, Petrarca, MacrobioBenedetto Fioretti, Torquato Tasso, Anacreonte, Caspar Schoppe, Nicola Villani, Marziale, Giuseppe Giusto Scaligero, Servio Mario Onorato, Juan Luis de la Cerda, Niccolò Perotti, Claudius Salmasius, Plauto, Denis Lambin, Boezio, Orazio, Aristide di Mileto, Giovanni Andrea Valvassore, Rudolf Agricola, Famiano Strada, Mario Nizolio, Ambrogio Calepio, Jean de Sponde, Eustazio di Tessalonica, Gellio, Gerhard Johannes Voss, Martinus Hayneccius, Gilles Ménage.


Quanto all'autore, Carlo d'Aquino fu membro dell'Accademia dei Rozzi di Siena e di quella degli Arcadi di Roma, nella quale portò il soprannome di Alcone Sirio. A questo proposito, va ricordato che uno dei suoi biografi gli attribuisce, più che a Crescimbeni, addirittura la stessa fondazione dell'Arcadia. Tuttavia, la sua fama e recente rivalutazione è dovuta al fatto di essere stato il primo autore ad essersi cimentato prima nella raccolta e traduzione in lingua latina delle similitudini contenute nella Divina Commedia di Dante Alighieri, attraverso la pubblicazione de “Le similitudini della Commedia di Dante Alighieri trasportate verso per verso in Lingua Latina...” (Roma, 1707); successivamente il primo autore a cimentarsi nella prima traduzione in lingua latina di tutta la Divina Commedia, pubblicata con il titolo “Della "Commedia" di Dante Alighieri trasportata in verso latino (...) Coll'aggiunta del testo italiano e di brevi annotazioni” (Napoli, 1728), edita in 3 volumi. Ambedue risultano essere delle opere titaniche e rappresentarono gli unici tentativi di una traduzione in latino del Poeta Fiorentino sulla Commedia per oltre un secolo.


Lettore e bibliofilo famelico, d'Aquino era in possesso di un imponente biblioteca privata, oggi custodita presso la “Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II” (cfr. inventario ANT. CAT. 18). Una pubblicazione che ne illustra il catalogo e gli interessi è stata pubblicata nel 2018 con il titolo “Rara ac erudita volumina. La biblioteca di Carlo D’Aquino (1654-1737)”, curata Valentina Sestini con il patrocinato del Centro Internazionale di Studi Umanistici di Messina; un'opera che allo stesso tempo ne testimonia rivalutazione e riscoperta, ben rappresentando il suo contributo negli studi letterari e storici.

Nel dettaglio, attraverso le opere Dantesche e la sua miscellanea critico-letteraria, riscopriamo un'autore con una vasta cultura letteraria e soprattutto dove la letteratura, da quella classica e storica, sino a quella romanza e rinascimentale, occupa un ruolo di primo piano nella conoscenza delle cose e nell'esperienza stessa della vita. Per d'Aquino la letteratura era il tutto e veniva probabilmente prima ancora di Dio, della teologia e della relativa dottrinologia di cui la sua figura ne faceva un rappresentante. Un sentimento che traspare non solo per la mole di opere di vario genere nel quale si è cimentato, ma nel risalto della sua naturalezza nella composizione e nello stesso relazionarsi con le tematiche ed i temi trattati con il lettore durante la stesura dei suoi essais letterari. Nozioni, artisti ed opere che toccano ogni aspetto della vita umana e che non trattano solo questioni di natura letteraria e filologica, ma che ben si intersecano con usi e costumi della società stessa. Così come nella diversità delle immagini delle similitudini dantesche, D'Aquino illumina lo spettro della conoscenza di Dante, anche il suo apparato critico testimonia un genio sineretico, con una capacità di giustapporre e amalgamare tutti i rami del sapere medievale in una produzione d'accompagnamento e di dialogo, nei quali noziosismo e pedanteria del perfetto stile gesuitico si smorzano sempre più alla volontà di instaurare un rapporto più informale con il lettore, portandolo ad essere parte stessa del processo itinerante della letteratura come sinonimo di conoscenza ed esplorazione.

Ovviamente la conoscenza enciclopedica di d'Aquino ha poco in comune con i più moderni libri di conoscenza redatti in ordine alfabetico o sistematico, o delle attuali enciclopedie/banche dati digitali. Infatti, quando separiamo le varie tematiche della miscellanea, a prima vista queste possono sembrare solo un patchwork disordinato, una raccolta di trattazioni filologiche e retoriche eterogenee senza tempo né luoghi. Le immagini sono piuttosto varie e riflettono molte fonti, ma è proprio questo il punto: nel loro insieme, così come nella sua opera delle similitudini dantesche -disposte senza un criterio d'ordine logico anch'esse-, formano un compendio intrigante dei tanti e vari elementi della natura letteraria. A riprova, il dantista Madison Sowell notò che il “formato è sì insolito per la nostra mentalità del ventunesimo secolo, dal momento che manca di una sistematizzazione ed indicizzazione familiare; ma se studiamo la miscellanea alla luce della filosofia medievale, gradualmente discerniamo l’emergere del libro dell’universo dalla miscellanea inizialmente caotica (cfr. Italica, Vol. 56, No. 4, 1979; pp. 384-393).


L'opera riuscì ad espatriare grazie anche alla fitta rete di sedi e biblioteche dell'istituzione gesuitica, sparse in tutta Europa. Compare nei cataloghi di una sterminata serie di biblioteche pubbliche e private del '700 e dell' '800, tra cui in quella del “Catalogue des livres imprimez de la Bibliotheque du roy. Bells lettrs” pubblicato a Parigi nel 1750.

Quanto alla sua considerazione nel XVIII secolo, così viene menzionato da Eustachio D'Afflitto nelle sue “Memorie degli scrittori del Regno di Napoli” del 1782:


«[d'Aquino] è stato uno di que' rari personaggi, che non solo per la soda e varia dottrina, ed erudizione, quanto per aver fatto con con gran decoro l'autore per lo spazio di circa 60 anni, si conciliò la stima, e la maraviglia di tutta la Repubblica letteraria. Della sua eleganza e purità di dire sì nella latina, che nella toscana favella, come altresì della varia erudizione, se n'ebber saggi continui in prediche e in orazioni recitate in varie funzioni, e in molti componimenti di prosa e di verso per varie occasioni stampati in fogli volanti, de' quali non ho voluto astringermi a dar conto, sì per la difficoltà di saperne l'edizioni, sì perchè molto ci resta a dire delle opere (...)» (cfr. Vol I. - 401 pp.).



(Si rimanda alle NOTE e CONDIZIONI per maggiori informazioni sull'esemplare qui venduto. Ai CENNI STORICI per l'opera e l'autore in sé)




CENNI STORICI E BIBLIOGRAFICI a cura di Luca Lippoli, con i contributi dei prof.ri Sowell e Asor Rosa



Si è sottolineato precedentemente una recente rivalutazione di d'Aquino, dal momento che spesso e volentieri, sino al secolo scorso, produzione e ruolo dell'accademico furono puntualmente ridimensionati o ignorati. Ad esempio, dei tre libri novecenteschi segnalati da Sowell, dedicati esclusivamente all'analisi delle similitudini dantesche, solo uno contiene un riferimento alla suddetta raccolta e traduzione. Gli altri due o sono ignari della sua esistenza, o non lo ritengono degno di attenzione critica. E questo vale anche per il suo apparato critico. Poiché l'opera piuttosto oscura di D'Aquino sulle similitudini e la letteratura tratta un'area altamente specializzata degli studi danteschi e non era sempre facilmente reperibile (prima dell'avvento delle digitalizzazioni); così come la maggior parte degli italianisti non era consapevole dei suoi contenuti e del suo ruolo nella storia degli studi danteschi. Ne consegue che la distinzione del volume come il primo libro a trattare le similitudini della Commedia passa complessivamente inosservata, e l'importanza dell'autore come dantista del Settecento, che raggiunse fama fuori dall'Italia durante la sua vita, fu generalmente disattesa in epoca romantica e neo-classica. Aldo Vallone, nel suo studio sulla critica dantesca di quell'epoca, non riserva nemmeno una nota a piè di pagina a colui che tradusse non solo le similitudini ma anche gran parte della Commedia in versi eroici latini e che annotò poi quest'ultima opera. Tale tendenza a trascurare la raccolta di similitudini e gli altri lavori di D'Aquino in ambito critico e letterario (e non solo), deriva anche dall'atteggiamento oggi prevalente riguardo al successo del poeta fiorentino nel Settecento.

La maggior parte degli studiosi concorda ancora oggi sul fatto che la fortuna di Dante raggiunse il suo punto più basso nel corso del XVII secolo. Il critico letterario Mario Puppo descrisse quel periodo come il secolo in cui la fama e la comprensione di Dante toccarono il punto più basso. Ma probabilmente in quel periodo anche le similitudini del poeta suscitarono dure critiche: l'erudito del Seicento Nicola Villani, ad esempio, denunciò diversi paragoni della Commedia, “le quali con vili e con laide cose talora si fanno”.  Sfortunatamente, molti critici anche per tutto il '900 considerarono il XVIII secolo proprio come il XVII, sottolineando la continua corrente di disprezzo o storpiatura per le opere di Dante, menzionandole solo di sfuggita. Ne è un esempio anche per lo stimato e da poco scomparso Alberto Asor Rosa, critico, italianista e curatore di molte voci tra cui quella del d'Aquino nel dizionario biografico degli italiani della Treccani. Benché la voce è stata scritta oltre 60 anni fa, si denota una mal celata sofferenza ed antipatia rivolta verso il gesuita e il suo tempo, tentando puntualmente di ridimensionarne capacità e pensiero critico, di comprensione ed analisi testuali, frutto anche di una eccessiva idealizzazione del poeta fiorentino, nonché, forse, per le vesti clericali del d'Aquino. Atteggiamento e giudizio che viene nuovamente ripreso nell'enciclopedia Dantesca della Treccani, la quale con una descrizione risalente agli anni '70, si limita  ad una descrizione assai modesta sull'autore e il suo contributo alla diffusione e studio del micro-cosmo dantesco. Fortunatamente, non è proprio così.

Nella stessa scia delle Similitudini, come abbiamo sopra riportato, d'Aquino si fa portavoce di un'idea di critica e della letteratura come il tentativo di esplorare la materia contorta ed insidiosa del liber Mundi che la letteratura risulta essere. A testimonianza, già nella prefazione dell'opera risultano chiari gli intenti e soprattutto denotano una conoscenza, metodologia critica e soprattutto un tentativo di rimettere credibilità ad una serie di opere e ai loro autori, che nel corso di alcuni secoli subirono sia un processo di revisione, sia caddero nel dimenticatoio, già a partire dal '700. L'introduzione alla miscellanea è emblematica a tal riguardo:


«Quo primùm tempore literaria monumenta vulgare coepit Ars Typographica, illuxere, quasi consenau quodam inito, conspicui Scriptores, qui perpetuis vigiliis, ærumnabili studio, & labore Herculeo, Veterum scripta in publicis Bibliothecis, privatidque loculis & scriniis pulvere obsita, e carie corrosa, tum librariorum imperitià adhuc supra quam longarum ætatum vetustate sieri potuit, maximam partem deformata, ab errorum sordibus detergerent, e ad pristinum nitorem, verosque lectionum e genuinos vultus revocarent.

Enimuero non ita facilè constituam, præclariusne illi de antiquitate, bonarum artium magistra, an de posteritate aint meriti. Tanti suit ad erudiendos posteros illustrium ingeniorum partus, non coinquinatos & laceros, aed nativæ formæ restitutos proferre in medium; nec vero pati, ut Typorum, novi inventi, elegantia tot maculis mendisque ac prope monstris divulgatorum operum deturpata circumferretur.

Verum Viri docti nimis angustum aridumque fundum interpretati sunt, Authores veteres ab Exscriptorum inscitia emaculandos solùm suscipere. Priores illi la- labores, tanquam præjacti seliciter tali, addidere eisdem animos, ut quæ in vetustis chartis quovis modo vitiosa ducerent, adnotarent atque configerent. Hinc certatum strenue tot editis voluminibus Castigationum, Variarum lectionum, Conjectaneorum, Verosimilium, Dilucidationum, Electorum, Collectaneorum, Adversariorum, Miscellaneorum; tum innumeris emendationum, adnotationum, animadversionum, observationum libellis, racemationibus, spicilegiis, quæsitis, glossematis, schediasmatis; quid plura? vel titulorum inire numerum libri instar, justique operis suerit. Postremo in ipsos Animadversores perperam imperiteque agere sepe deprehensos redarguendi, refellendique studium recidit. Hinc Ars critica in se ipsam obvoluta atque retorta, & Censura ipsos acrius aggressa Censores. At, inquies, quorsum ista? Quoniam metui à te, ne actum agi à me existimares, qui post tot castigationum exarata volumina, quædam diuturno in his literis studio a me observata collegerim, juriaque publici fecerim. Atqui meà, nam quem sponsorem appellem alium? fide interposita sic habeto, me contentis remis velisque nihil magis prospexisse, quam ut hunc scopulum declinarem; contenderemque aut ab aliis, quod ego scirem, non animadversa his paginis confignare, aut occupata nivis inventis notiaque sustentare, distinguere auctiora, facere. Attexui differtationes breves, narratiunculas,& poëticos interdum lusus, à nobisnon adhuc editos, ut huic, quidquid hoc est, opellæ varietas saltem conciliaret gratiam ; & doctrina, ut ait Gellius, miscella, & confusanea, Miscellaneorum titulo responderet».


Nella stessa prefazione, un altro dettaglio da non trascurare è il personale riferimento alla censura del tempo, e che lo stesso d'Aquino subì nella stessa istituzione di cui era membro noto. Avvenimenti che non solo non nascose:


«(...) Di conseguenza  l'arte della critica si è ripiegata su se stessa e distorcendosi, e la Censura attacca più vigorosamente i suoi stessi Censori. Ma, ti chiederai [lettore], perché? Perché ti temevo [avevo paura di te], perché non pensassi che un atto [oltraggioso] fosse stato commesso da me, il quale, dopo tanti castighi, avevo raccolto i volumi disegnati, alcuni dei quali erano stati da me osservati per lungo tempo nello studio di questi lettere e aveva formato giurie pubbliche».


Non è infatti la prima volta che lo si può constatare, soprattutto nelle opere dedicate a Dante. Già nelle Similitudini, in una breve prefazione ad opera del gesuita Vincenzo Lucchesini, si assicura il lettore che il volume non contiene “nulla di contraria alla nostra Santa Fede” e promette che le similitudini raccolte e tradotte daranno a "letterati d'ogni altra Lingua, ampia ragione della fama già passata fra loro di quel maraviglioso Poeta, e acquisteranno al Traduttore il merito di averli introdotti alla cognizione di lui”. Nessun riferimento mentre nell'imprimatur del “Praepositus Generalis Societatis Jesu” sottoscritta da Michelangelo Tamburini il quale, diciotto anni dopo, riporterà invece nell'imprimatur della Miscellanea qualche implicito indizio:


«Cum Opus cui titulus Miscellanea à P. Carolo de Aquino Societatis nostra Sacerdote conscriptum, aliquot ejusdem Societatis Theologi recognoverint & in lucem edi posse probaverint; facultatem facimus ut typis mandetur; si iis, ad quos pertinet ita videbitur; cujus rei gratia, has litteras manu nostra Jubscriptas,& sigillo nostro munitas dedimus. - Roma 12. Julis 1725»


Interessante il sottolineare che solo “alcuni teologi della congregazione riconobbero e dimostrarono che poteva essere portata alla luce” l'opera, e che solo per approvazione di questi venne data alle stampe.

Un altro elemento che ci rinnova le forti pressioni ogni qualvolta il letterato era intento a pubblicare i propri studi su alcuni campi ed autori della letteratura, è data proprio dal luogo di stampa: nelle Similitudini dantesche compare Napoli, ma l'impressione fu in realtà fatta a Roma; mentre la data di Napoli fu posta sul frontespizio perché lo stesso Dante, già stato precedentemente messo all'indice, non era mai stato stampato a Roma, e d'Aquino dovette probabilmente temere che la sua traduzione sarebbe stata proibita, o comunque ostacolata, facendo diversamente.



Carolo d'Aquino nacque a Napoli nel 1654 da Bartolomeo, principe di Caramanico, e da Barbara Stampa, milanese, dei marchesi di Soncino. A quindici anni prese i voti presso la Compagnia di Gesù e, una volta terminati gli studi classici e teologici, gli furono assegnate diverse cariche al Collegio Romano: prima la cattedra di retorica, dal 1684 al 1702; successivamente quella di “prefetto degli studi”, e infine, gli fu assegnato il titolo di “scrittore” sino alla sua morte, avvenuta nel maggio del 1737.

D'Aquino è stato uno degli autori letterari più proficui del suo secolo, occupandosi dei più svariati argomenti, denotando una vastissima cultura ed un gusto raffinato nella quotidiana frequentazione con i classici italiani e latini. A un'attività propriamente retorica, si possono giudicare numerossime le orazioni d'occasione (funerali, encomiastiche, per compleanni), di cui è ricca la sua carriera letteraria e mondana. Citando le più importanti: “Genethliacon Vvalliae Principi Jacobi II Magnae Britanniae regis filio (...) dictum in aula maxima Collegii Romani...” (Romae, 1688); “Oratio in funere Ioannis III Poloniae Regis habita in Sacello Pontificio Quirinali...”(Romae, 1696); “Oratio in funere Eleonorae austriacae, Poloniae Reginae...” ( Romae, 1698); “Sacra exequialia in funere Iacobi II Magnae Britanniae regis...” (Romae, 1702). Queste e molte altre orazioni furono riunite in un copioso volume di due tomi, pubblicato a Roma nel 1704.

A un interesse soprattutto retorico, si possono ricondurre poi le opere in versi e in prosa, di argomento storico, in cui peraltro prestò la sua abilità oratoria a un desiderio assai sentito di esaltazione religiosa e politica. Lavori redatti negli stessi anni della suprema espansione ottomana nei Balcani e del decisivo violento contrattacco iniziato dalla cristianità sotto le mura di Vienna e proseguito poi nelle pianure ungheresi. A questi episodi sono dedicati il “De Veradini expugnatione carmen” (Romae, 1693), e i “Fragmenta historica de bello Hungarico” (Romae, 1726), parte questi ultimi di una più vasta opera che l'accademico aveva intrapreso con l'alta approvazione dell'imperatore Leopoldo e con il sussidio importantissimo del Avancini della medesima Compagnia, assistente di Germania in Roma, e che aveva dovuto in seguito abbandonare per la morte di questi due suoi protettori.

Il dotto gesuita si occupò anche di questioni lessicali, componendo vocabolari specialistici che si annoverano nella vasta produzione contemporanea di opere analoghe. Suoi sono infatti il celebre “Lexicon militare, (Romae, 1724) -cui seguirono tre anni più tardi le Additiones- e un “Vocabularium architecturae aedificatoriae” (Romae, 173).

Come se non bastasse, d'Aquino fu anche un poeta di lingua latina, anche se il più delle volte considerato prettamente scolastico. Pubblicò tre tomi di Carmina (Romae 1701, 1702, 1703), di vario metro e genere, che vanno dall'epigramma all'ode oraziana, al frammento anacreonteo. Un derivato di questa produzione poetica fu “L'Anacreonte ricantato dal Padre C. d'A. della C. di G., trasportato in verso italiano da Alcone Sirio pastore Arcade” (Roma, 1726). Da buon religioso, egli seppe mettere questa sua abilità tecnica al servizio degli offici ecclesiastici, componendo e pubblicando gli “Elogia Sanctorum quae ab Ecclesia romana divini officii lectionibus recitantur, epigrammatis reddita...” (Romae, 1730).


Nel quadro vasto di questa produzione retorico-umanistica di stampo gesuitico va ricondotta la sua devozione verso Dante. Come più volte affrontato, il letterato iniziò la sua attività di traduttore dantesco pubblicando “Le similitudini della "Commedia" di Dante Alighieri trasportate verso per verso in lingua latina...” (coltesto italiano a fronte - Roma, 1707), opera già di per sé considerevole, e pure un semplice assaggio nei confronti della successiva, che addirittura realizzava l'ambiziosissimo progetto di ridurre in versi latini tutta l'opera maggiore di Dante: “Della "Commedia" di Dante Alighieri trasportata in verso latino (...) Coll'aggiunta del testo italiano e di brevi annotazioni” (Napoli, 1728), edita in 3 volumi. Secondo Asor Rosa, però:


«Fin dal primo accostamento alle versioni latine di Dante, che egli attuò con costanza e impegno stimabile, il lettore non riesce a liberarsi dall'impressione che al fondamento di quest'opera strabiliante di erudizione e di sapere classico ci sia una pressoché totale incomprensione del testo studiato e, tradotto, o, per meglio dire, una non sempre intenzionale ma certo chiarissima volontà di correzione e di rifacimento. In altri termini, proprio in questo lavoro cosi devoto e paziente di d'Aquino, non si può constatare come il rispetto del gran nome di Dante sia, nel particolarissimo ambito della cultura del primo Settecento, un fatto assai più formale che sostanziale, al punto che gli stessi suoi più strenui cultori, nel momento stesso in cui applicano concretamente al testo la loro venerazione, ne svelano anche i limiti profondi e la debolezza di fondo» (cfr. d'Aquino, Carlo - Dizionario Biografico degli Italiani; Volume 3, 1961).


Lo stesso d'Aquino già dalla “Prefazione” della Commedia riporta l'essere stato costretto ad operare alcune censure e di non aver voluto tradurre dal poema dantesco quanto potesse risultare un'offesa a "illustri Comuni", "sagri personaggi di eccelso grado", re e principi di nazioni straniere, e financo ad illustri rappresentanti di famiglie nobili italiane, i cui discendenti, dopo quattro secoli, avrebbero mai tollerato la vergogna di vedere il proprio nome condannato, in versi latini oltre che italiani, "al caldo e al gelo del suo Inferno fantastico e capriccioso". Proposito rigidamente applicato, al punto di portare all'eliminazione o alla parziale censura non solo delle grandi invettive contro Pisa (cfr. Inf., XXXIII) o contro Firenze (cfr. Inf. XV), ma anche degli accenni alle famiglie nobili, come i Gualandi, i Sismond,i i Lanfranchi (cfr. Inf., XXXIII, 32), o alla natura prava di certi italiani o di certi popoli stranieri. Integra risulta invece l'invettiva contro l'Italia del canto VI del Purgatorio, che sempre secondo Asor Rosa:


«[l'opera] conserva, pur nella dignitosa sostenutezza dell'esametro eroico, alcune punte notevolmente aspre ("domito servilia collo / vincla geris..."; "lupa venalis, miserandaque..."); forse sembrò al buon padre gesuita che, tra tutti i casi possibili di suscettibilità storica, famigliare o personale, l'Italia sola, nel suo complesso, non avesse né motivo né diritto di irritarsi e di reclamare della brusca parola dantesca. È sintomatico, del resto, che tra i casi elencati nella “Prefazione” di intenzionale esclusione, non figurino i numerosissimi brani della Commedia volti a condannare la corruzione della Chiesa, dei pontefici e dei prelati; i quali brani sono peraltro sistematicamente espunti dalla traduzione, talché, ad esempio, delle parole di Guido da Montefeltro nel XXVII dell'Inferno, o di Pier Damiani e di s. Benedetto, rispettivamente nei canti XXI e XXII del Paradiso, ovvero dell'intero XIX canto dell'Inferno, non restano altro che file monotone e scarsamente espressive di puntolini; e lo stesso s. Pietro (cfr. Paradiso, XXVII) subisce l'onta della censura. È già stato osservato (M. Besso) che l'intento censorio del padre d'Aquino si rivela fondamentalmente politico o, diremmo noi, politico-ecclesiastico; prova ne sia che brani anche scabrosi dal punto di vista morale, come quelli del canto V dell'Inferno, sono tradotti molto fedelmente, e in alcuni punti, a giudizio del Tommaseo, con una accentuazione di sensualità».


Per quanto riguarda i criteri usati dallo scrittore, citando nuovamente Asor Rosa:


«nell'operare la sua traduzione [D'Aquino] si rende ben conto del divario immenso intercorrente fra le possibilità espressive della terzina e quelle dell'esametro virgiliano (preferito a quello oraziano, troppo prosaico per la sua ambizione di retore); ma la consapevolezza del problema gli serve soltanto per mettere in luce i motivi per cui la sua traduzione sarà tanto diversa dall'originale: "Siccome allo stile Comico e Satirico, da esso comunemente usato, ben si convengono i Laconismi, così dall'Eroico si richiede l'Asiatico, ampio e magnifico, che non adempia il solo necessario, ma ridondi con saggi di maggior forza e dovizia...". Nasce così un Dante smussato e solenne, camuffato in paludamenti virgiliani, che è, inconsapevolmente, assai più vicino di quanto non sembri a prima vista a quell'atteggiamento del gusto, di cui S. Bettinelli, divenutone più tardi consapevole, doveva dar prova, condannando in una il grande poeta e il mediocre suo traduttore. Quanto alla scelta del metro, l'A la giustifica con una motivazione che più retorica non potrebbe essere: "dirò dunque di aver scelto un tal metro, per esser più noto all'uso, e più gradito al palato universale de' Letterati».


Nonostante la ponderata avversità di Asor Rosa e la poca indulgenza nel segnalarne le criticità dell'accademico Gesuita nel suo operato, la versione della Commedia di Carlo d'Aquino fu molto nota e stimata nel '700: servì d'esempio a tentativi successivi, come quello dell'abate Dalla Piazza (pubbl. nel 1848 a Lipsia da C. Witte) e del Tommaseo (cfr. soprattutto alcuni luoghi della traduzione tommaseiana del canto V dell'Inferno). Se Bettinelli condannò la fatica di d'Aquino, ai suoi occhi, giudicata “mostruosa”, Tommaseo trovò in essa una stimata eleganze, pur non condividendone l'impostazione generale, a suo giudizio troppo lontana dallo spirito dantesco. Di stesso parere Witte, che giudicò la traduzione del padre elegante, mentre Testa volle colmare le lacune dell'opera, traducendo tutti i luoghi censurati dal gesuita (e presentò il frutto del suo lavoro in una pubblicazione “Per le cospicue nozze del nobile uomo, Domenico Melilupi, Marchese di Soragna, colla nobile donzella Giustina Piovene, contessa , Porto Godi Pigafetta”; Padova, 1835). Piegadi ristampò la versione del canto XXXIII dell'Inferno, insieme con quella di altri scrittori del Sette e Ottocento (“Morte del conte Ugolino, quadro di messer Dante Alighieri ritratto in metro latino dal giovane messicano Uguccione Nonvrai e da altri sei celebri autori”; Venezia, 1864). De Sanctis, infine, e da cui probabilmente Asor Rosa attinge per la sua analisi, forse un po' troppo dura verso il gesuita, confrontando un passo della versione aquiniana con il testo dantesco, ne colse la debolezza intrinseca alla mancanza di consapepevolezza critica e di spirito poetico del padre gesuita.



Fonti




CONDIZIONI

Le condizioni complessive risultano essere buone (nei limiti del contesto e del buonsenso)


Volume legato in piena pelle di vitello castano scuro, con pellame nel complesso integro, ma non esente da segni di tempo ed ubicazione che, sistematicamente, si menzioneranno laddove presenti.

Piatti rigidi, solidi ed integri, con pellame ben stirato e tonale, ma leggermente screpolato: si segnalano alcuni segni e lasciti di tempo e consultazione, quali alcuni escoriazioni e piccole mancanze al rovescio (2-3 mm), qualche ruga agli angoli e alcuni lasciti di umidità passata che ne alterano la pigmentazione in prossimità delle carniere (cfr. Foto 2).

Costa a 4 nervature esposte, complessivamente integra, decorata con decorazioni araldico-floreali incise a secco in oro tonali e, nel complesso, ben preservate, con pellame integro, leggermente screpolato, ma privo da rilevanti segni di deterioramento. Leggermente sbiadita la decorazione al piede.

Alla prima sezione, tassello in marocchino bordeaux ben preservato e tonale, su cui spaziano titolature sempre incise a secco in oro, riportanti autore e titolo sintetizzato, ben preservati (cfr. Foto 2).

Sulle Unghie, con brevi sezioni screpolate, si preservano le decorazioni in oro a secco, con piccola mancanza sul defilo di testa.

Cuffie complessivamente integre e ben preservate, con leggera mobilità e principio di screpolatura su quello di testa. Capitelli integri e funzionali. Cerniere solide e robuste, prive da menzionabili punti lisi, se non qualche fisiologica ruga dovuta alla consultazione (quindi con piatti ben ancorati al tronco - cfr. foto 2).

Tagli sani, congrui, complessivamente bruniti e leggermente arrossati (cfr. Foto 3).


Gli interni nel complesso risultano essere integri, ma non esenti da alcuni segni di tempo di visibile entità. Guardie e contropiatti in carta bianca sporadicamente arrossata, brunita lungo i margini. In quelle di dritto s'intravede sezione di partitura musicale scritta a china su carta di recupero coeva, con impronta al recto del foglio di guardia (cfr. Foto 4). Presenti al contropiatto del dritto segni manoscritti e una firma di possesso in corsivo, coeva o di poco successiva, presente al primo foglio di guardia.

Al front., 3 timbri storici di biblioteca pastorale dismessa, tutti appartenenti alla stessa (cfr. Foto 4).

Carteggio complessivamente integro e asciutto, ma segnato da pregressa umidità, con carte sì asciutte ma occasionalmente ondulate. Nel dettaglio, una visibile gora a mezza luna con becca è presente nella sezione alta dello specchio di stampa: si sviluppa sino alla prima delle tre cuciture, senza però alterarne la comprensione e fruibilità del testo, estendendosi orizzontalmente sino ai margini esterni (estensione: 15 cm circa); presente in modo deciso nelle prime 50 carte, successivamente scema e si ripresenta più tenue sino in fine. A ciò, si segnalano alcune bruniture e tenui arrossature, principalmente nel margine interno per qualche carta, soprattutto d'inizio e di fine; e qualche arrossature a chiazze in modo più deciso alle guardie bianche d'inizio, soprattutto a margine, più raramente sullo specchio. Segni però mai compromettenti la consultazione del corpus stampato o da risultare gravosi.

Per il resto, non si rilevano fioriture, altre gore, lasciti di muffa, strappi, fori, mancanze o compromissioni; altresì corpus stampato ben tonale, integro, sano, leggibile e godibile.

Vignetta al front, iniziali, finalini e cornici xil. tutti tonali e ben preservati. Legatura, nel complesso, ancorata e compatta, senza debolezze alle cuciture, le quali risultano sane e robuste.


[Per tutti i segni e lo stato del carteggio si consultino le foto 4-14]



N.B.

Ultima foto, ritratto dell'autore, a carattere puramente illustrativo.


Per una verifica autonoma di quanto descritto, invito cordialmente a consultare il corredo fotografico.


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