autore Dino Campana (il poeta pazzo)
Canti orfici e altre poesie
editore Einaudi
collana Einaudi Tascabili. Poesia
numero 1182
prima edizione


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Biografia

Dino Campana nacque a Marradi, un borgo della Romagna fiorentina, il 20 agosto del 1885, figlio di Giovanni Campana, insegnante di scuola elementare, poi direttore didattico, descritto come un uomo perbene ma di carattere debole e remissivo, e di Francesca Luti, detta "Fanny'", una donna severa e compulsiva, affetta da mania deambulatoria e fervente credente cattolica. Fanny era attaccata in modo morboso al figlio Manlio, più giovane di due anni di Dino.

Trascorse l'infanzia in modo apparentemente sereno nel paese natìo, ma intorno all'età dei quindici anni gli vennero diagnosticati i primi disturbi nervosi, che - nonostante tutto - non gli avrebbero impedito comunque di frequentare i vari cicli di scuola.

Frequentò le elementari a Marradi (dove ebbe come compagno di classe il futuro commediografo e paroliere Anacleto Francini), poi la terza, quarta e quinta ginnasio presso il collegio dei Salesiani di Faenza. Intraprese gli studi liceali dapprima presso il Liceo Torricelli della stessa città, e in seguito a Carmagnola (in provincia di Torino), presso il regio liceo Baldessano, dove conseguì la maturità nel luglio del 1903.
Rientrato a Marradi, le crisi nervose si acutizzarono, come pure i frequenti sbalzi di umore, sintomi dei difficili rapporti con la famiglia (soprattutto con la madre) e il paese natío. Per ovviare alla monotonia delle serate marradesi, specie nella stagione invernale, Dino era solito recarsi a Gerbarola, una località poco distante dal borgo, dove con gli abitanti del luogo trascorreva qualche ora mangiando le caldarroste (la castagna è infatti il frutto tipico di Marradi), comunemente indicate col termine regionale bruciate. Questo tipo di svago sembrava avere effetti positivi sui suoi disturbi psichici.

Dopo il conseguimento del diploma di maturità, Dino, all'età di diciotto anni, si iscrisse, nell'autunno del 1903, presso l'Università di Bologna, al corso di laurea in Chimica pura, e nel gennaio dell'anno successivo entrò a far parte della scuola per gli ufficiali di complemento di Bologna. Non riuscì però a superare l'esame per il ruolo di sergente, e venne quindi prosciolto dal servizio e in seguito congedato. Nel 1905 passò alla Facoltà di Chimica farmaceutica presso l'Università di Firenze, ma dopo pochi mesi Campana decise di trasferirsi nuovamente a Bologna.

Il poeta espresse il suo "male oscuro" con un irrefrenabile bisogno di fuggire e dedicarsi a una vita errabonda: la prima reazione della famiglia, del paese e successivamente anche dell'autorità pubblica, fu quella di considerare le stranezze di Campana come segni lampanti della sua pazzia. Ad ogni sua fuga, che si realizzava con viaggi in paesi stranieri, dove si dedicava ai mestieri più disparati per sostentarsi, seguiva, da parte della polizia (in conformità con il sistema psichiatrico del tempo, e a seguito delle incertezze dei familiari) il ricovero in manicomio. Inoltre, veniva visto con sospetto per i tratti somatici giudicati "germanici" e per l'impeto con cui discuteva di poesia e filosofia.

Internato per la prima volta nel manicomio di Imola (in provincia di Bologna), nel settembre del 1905, ne tentò una fuga già tra il maggio e il luglio del 1906, per raggiungere la Svizzera e da lì la Francia. Arrestato a Bardonecchia (in provincia di Torino) e di nuovo ricoverato presso l'istituto di Imola, ne uscì nel 1907 per l'interessamento della famiglia a cui era stato affidato.


Risale intorno al 1907 un suo viaggio in Argentina, presso una famiglia di lontani parenti emigrati, caldeggiato dagli stessi genitori per liberarlo dal tanto odiato paese natìo, e probabilmente perché il conflitto con la madre si era fatto ormai insanabile. Attratto probabilmente dalla nuova meta, Dino accettò forse di partire anche (o soprattutto) per lasciarsi alle spalle l'esperienza del manicomio.

Il viaggio in Sudamerica rappresenta comunque un punto particolarmente oscuro della biografia del poeta marradese: se alcuni infatti arrivarono a chiamarlo "il poeta dei due mondi", c'è anche chi, come per esempio Ungaretti, sostiene invece che in Argentina Campana non ci andò. Regna una certa confusione anche sulle varie versioni intorno alla datazione e alle modalità del viaggio e sul tragitto del ritorno. Tra le varie ipotesi, si crede che sia partito nell'autunno del 1907 da Genova, ed abbia vagabondato per l'Argentina fino alla primavera del 1909, quando ricomparve a Marradi, dove venne arrestato.

Dopo un breve internamento allo Ospedale Psichiatrico San Salvi di Firenze, ripartì per un viaggio in Belgio, ma venne nuovamente arrestato a Bruxelles e quindi internato presso la maison de santé di Tournay all'inizio del 1910. A questo punto, si rivolse in cerca di aiuto alla famiglia e venne rimandato in Italia, a Marradi, dove trascorse un periodo più tranquillo. Nell'autunno del 1910 andò in pellegrinaggio al Santuario della Verna: l'esperienza sarà rievocata in alcune poesie dei Canti Orfici. Tra il 1912 e il 1913 si immatricolò per la seconda volta presso l'ateneo bolognese, ma soltanto dopo due mesi chiese il trasferimento per Genova. Durante il soggiorno universitario nel capoluogo emiliano ebbe però modo di frequentarne i circoli letterari legati ai goliardi locali, con i quali riuscì a stringere dei solidi rapporti d'amicizia, e alcuni appassionati di letteratura della sua età. Proprio su fogli pubblicati dai goliardi bolognesi (Il Papiro, 1912 e Il Goliardo, 1913) uscirono le sue prime prove poetiche: in tutto quattro testi che, rielaborati, sarebbero poi stati tutti inclusi nei Canti Orfici.
I Canti Orfici

Nel 1913 Campana si recò a Firenze, presentandosi alla redazione della rivista Lacerba di Giovanni Papini e Ardengo Soffici, suo lontano parente, a cui consegnò il suo manoscritto dal titolo Il più lungo giorno. Non venne però preso in considerazione e il manoscritto andò ben presto perduto (sarà ritrovato solamente sessant'anni dopo, nel 1971, dopo la morte di Soffici, tra le sue carte nella casa di Poggio a Caiano, probabilmente nello stesso posto in cui era stato riposto e subito dimenticato).

Dopo qualche mese di attesa irrisposta, Campana scese da Marradi a Firenze per recuperare il manoscritto. Papini non lo possedeva più e lo indirizzò da Soffici, che però sostenne di non esserne mai entrato in possesso. Il giovane, già mentalmente labile, fu preda, a seguito di questo episodio, di rabbia e disperazione, poiché aveva consegnato, ingenuamente, l'unica copia esistente dell'opera. Scrisse e implorò insistentemente senza altro risultato che il disprezzo e l'indifferenza di tutto l'ambiente culturale che gravitava intorno alle "Giubbe Rosse". Infine, esasperato, minacciò di presentarsi con il coltello per farsi giustizia dell'"infame" Soffici e dei suoi soci, che definì "sciacalli".

A proposito del dissidio tra Campana e l'ambiente letterario fiorentino si leggano le parole che Campana scrisse a Papini in una lettera del maggio del 1913: "(...) E se di arte non capite più niente cavatevi da quel focolaio di càncheri che è Firenze e venite qua a Genova: e se siete un uomo d'azione la vita ve lo dirà e se siete artista il mare ve lo dirà. Ma se voi avete un qualsiasi bisogno di creazione non sentite che monta attorno a voi l'energia primordiale di cui inossare i vostri fantasmi? Accademia della Crusca. Accademia dei Lincei. Accademia del mantellaccio: sì, voi siete l'accademia del Mantellaccio; con questo nome ora vi dico in confidenza, io vi chiamo se non rispettate di più l'arte. Mandate via quella redazione che a me sembrano tutti cialtroni. Essi sono ignari del «numero che governa i bei pensieri». La vostra speranza sia fondare l'alta coltura italiana. Fondarla sul violento groviglio delle forze nelle città elettriche sul groviglio delle selvagge anime del popolo, del vero popolo, non di una massa di lecchini, finocchi, camerieri, cantastorie, saltimbanchi, giornalisti e filosofi come siete a Firenze. Sapete, essendo voi filosofo sono in diritto di dire tutto: del resto vi sarete accorto che sono un'intelligenza superiore alla media. Per finire, il vostro giornale è monotono, molto monotono: l'immancabile Palazzeschi, il fatale Soffici: come novità: Le cose che fanno la Primavera. In verità vi dico tutte queste cose non fanno la Primavera ma l'inverno. Ma scrivete un po' a Marinetti che è un ingegno superiore, scrivetegli che vi mandi qualche cosa di buono: e finitela colla critica".

Nell'inverno del 1914, persa ormai ogni speranza di recuperare il manoscritto, Campana decise di riscrivere tutto affidandosi alla memoria e alle sue sparse bozze; in pochi mesi, lavorando anche di notte e a costo di un enorme sforzo mentale, riuscì a riscrivere il libro, con numerose modifiche e aggiunte. Nella primavera dello stesso anno, Campana riuscì finalmente a pubblicare, a proprie spese, la raccolta con il nuovo titolo, appunto, di Canti Orfici, in riferimento alla figura mitologica di Orfeo, il primo dei "poeti-musicisti". Nel 1915 una recensione ai Canti da parte di Renato Fondi, sul Fanfulla della domenica, gli restituì "il senso della realtà": trascorse quindi l'anno viaggiando senza una meta fissa tra Torino, Domodossola, ancora Firenze. Scoppiata la Grande Guerra, Campana venne esonerato dal servizio militare, ufficialmente per problemi di salute fisica, in realtà perché segnalato ormai come malato psichiatrico grave. Nel 1916 ricercò inutilmente un impiego. Scrisse a Emilio Cecchi — il quale sarebbe stato, insieme a Giovanni Boine (che comprese da subito l'importanza di Campana, recensendo i Canti Orfici nel 1915 su Plausi e Botte, una rubrica della rivista La Riviera Ligure) e a Giuseppe De Robertis, uno dei suoi pochi estimatori) — e iniziò con lo scrittore una breve corrispondenza. A Livorno si scontrò con il giornalista Athos Gastone Banti, che scrisse su di lui un articolo denigratorio sul quotidiano Il Telegrafo: si arrivò quasi al duello, evitato solo perché i padrini di Campana non lo avvisarono degli accordi presi con quelli del giornalista.
Nel 1916 conobbe anche la scrittrice Sibilla Aleramo, autrice del romanzo Una donna, con la quale instaurò un'intensa quanto tumultuosa relazione, che si sarebbe interrotta all'inizio del 1918, a seguito di un breve incontro nel Natale del 1916, a Marradi.

«Mi lasci qua nelle mani dei cani senza una parola e sai quanto ti sarei grato. Altre parole non trovo. Non ho più lagrime. Perché togliermi anche l’illusione che una volta tu mi abbia amato è l’ultimo male che mi puoi fare.»

(Dino Campana a Sibilla Aleramo, Marradi, 27 settembre 1917)

Esistono testimonianze della relazione avvenuta tra Dino e Sibilla nel carteggio pubblicato da Feltrinelli nel 2000: Un viaggio chiamato amore. Lettere 1916-1918. Il carteggio ha inizio con una lettera della Aleramo, datata 10 giugno 1916, nella quale l'autrice esprime la sua ammirazione per i Canti Orfici, dichiarando di esserne stata "incantata e abbagliata insieme". La scrittrice era allora in vacanza nella Villa La Topaia a Borgo San Lorenzo, mentre Campana era in una stazione climatica presso Firenzuola, le Casette di Tiara, per rimettersi in salute dopo essere stato colpito da una leggera paresi al lato destro del corpo.
Ultimi anni e morte

«Tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili...»

(Dino Campana, lettera dell'11 aprile 1930 a Bino Binazzi, spedita dal manicomio di Castelpulci)


Nel 1918, Campana venne internato presso l'ospedale psichiatrico di Villa di Castelpulci, nei pressi di Scandicci (in provincia di Firenze). Lo psichiatra Carlo Pariani gli fece visita per intervistarlo e confermò l'inappellabile diagnosi: ebefrenia, una forma estremamente grave e incurabile di psicosi schizofrenica; tuttavia il poeta sembrò essere a suo agio nel manicomio, vivendo una vita tranquilla e, finalmente, sedentaria.
Dino Campana morì in ospedale, sembra per una forma di setticemia, causata dal ferimento con un filo spinato nella zona dello scroto, forse durante un tentativo di fuga, il 1º marzo 1932, pochi giorni prima di essere dimesso dal manicomio.

Il 2 marzo, la salma di Campana venne inumata nel cimitero di San Colombano, a Badia a Settimo, nel territorio di Scandicci, ma nel 1942, su diretto interessamento di Piero Bargellini, venne data alle spoglie del poeta una sepoltura più dignitosa e la salma trovò riposo nella cappella sottostante il campanile della chiesa di San Salvatore. Durante la seconda guerra mondiale, il 4 agosto 1944, l'esercito tedesco, in ritirata, fece saltare con una carica esplosiva il campanile, distruggendo nel contempo anche la cappella.

Nel 1946 le ossa del poeta, in seguito a una cerimonia alla quale parteciparono numerosi intellettuali dell'epoca, tra i quali Eugenio Montale, Alfonso Gatto, Carlo Bo, Ottone Rosai, Pratolini e altri, vennero collocate all'interno della chiesa di San Salvatore a Badia a Settimo, raggiungendo così la loro dimora attuale.
La poetica

La poesia di Campana è una poesia nuova nella quale si amalgamano i suoni, i colori e la musica in potenti bagliori. Il poeta sognava “una poesia europea musicale colorita”: europea in quanto in essa doveva fondersi la civiltà latina, ossia la tradizione pura, e la “kultur”, come espressione del crepuscolo, che presupponeva una speculazione filosofica coraggiosa, capace di creare una sinfonia di colori e di suoni. L’arte nuova, alla quale aspirava il poeta, doveva passare attraverso un desiderio di distruzione, “la forza di sovvertimento”, in cui ciò che conta è l’originalità nell’arte come nel pensiero. Campana mostra il totale rifiuto dell’arte come “sublimazione”, per tendere ad uno “stadio” superiore “dello spirito”, in cui la poesia diventa faro della vita, un punto di riferimento attraverso il quale si realizzi la stretta connessione tra vita e poesia. La poesia per il poeta di Marradi coincide con un percorso conoscitivo, soprattutto di se stessi e del proprio rapporto con il mondo, nel quale un ruolo fondamentale è svolto dalla memoria e dai sensi. La parola poetica si mescola con il linguaggio del mondo, che rappresenta un insieme fertile di suoni, in cui i suoni del vento e del mare si confondono con i suoni delle attività umane. È l’immagine di Genova, la città-mito della sua poesia, con il suo porto in cui partenze e ritorni si ripetono in un ciclo continuo. La poesia rappresenta quel viaggio che innalza l’uomo dalla contingenza dei “triti fatti”, portandolo verso le “vie del cielo”, lontano dalle necessità. Egli attribuisce all’arte la funzione di guida, di conoscenza assoluta.

Il verso è indefinito, l'articolazione espressiva in un certo senso monotona ma nel contempo ricca di immagini molto forti di annientamento e purezza.

Il titolo allude agli inni orfici, genere letterario attestato nell'antica Grecia tra il II e il III secolo d.C. e caratterizzato da una diversa teogonia rispetto a quella classica. Inoltre le preghiere agli dei (in particolare al dio Protogono) sono caratterizzate dagli scongiuri dal male e dalle sciagure.
I temi fondamentali

Uno dei temi maggiori di Campana, che si trova già all'inizio dei Canti Orfici nelle prime parti in prosa - La notte e Il viaggio e il ritorno - è quello dell'oscurità tra il sogno e la veglia. Gli aggettivi e gli avverbi ritornano con una ripetitiva insistenza come di chi detta durante un sogno, sogno però interrotto da forti trasalimenti (si veda la poesia "l'invetriata", mirabile spleen baudelairiano).

Nella seconda parte, nel notturno di "Genova", ritornano tutti i miti fondamentali che saranno del Campana successivo: le città portuali, la matrona barbarica, le enormi prostitute, le pianure ventose, la schiava adolescente.

Già nella prosa si nota l'uso dell'iterazione, l'uso drammatico dei superlativi, l'effetto d'eco nelle preposizioni, il ricorrere alle parole chiave che creano una forte scenografia. Del Serra ha esaminato le figure ricorrenti in Campana: anastrofi, adnominationes, tmesi anacolutiche e chiasmiche, catacresi, anastrofe con aprosdoketon.
L'interpretazione della poesia

Nel quindicennio che va dalla sua morte alla fine della seconda guerra mondiale (1932-1945) e anche in seguito, nel periodo dell'espressionismo e del futurismo, l'interpretazione della poesia di Campana si focalizza sullo spessore della parola apparentemente incontrollata, nascosta in una zona psichica di allucinazione e di rovina.

Nei suoi versi, dove vi sono elementi deboli di controllo e di approssimativa scrittura, si avverte - a parere di molti critici - il vitalismo delle avanguardie del primo decennio del XX secolo; dai suoi versi, per la verità, hanno attinto poeti molto differenti tra di loro, come Mario Luzi, Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto.
Campana e Rimbaud

Il destino di Campana è stato avvicinato a quello di Rimbaud. Ma, secondo alcuni, tra Campana e il poeta maledetto il punto di contatto (il bisogno di fuggire, l'idea del viaggio, l'abbandono di un mondo civile estraneo) è affrontato in modo molto diverso. Dove Rimbaud abbandona la letteratura per fuggire in Africa e prestarsi a mestieri avventurosi e alternativi, come il trafficante d'armi, Campana alla fine dei suoi viaggi, senza una vera meta, trova solamente la follia.

E se Rimbaud aveva fatto una scelta, Campana non scelse ma fu sopraffatto dagli eventi che attraversarono la sua vita diventandone una vittima: senza però mai disertare la poesia, come, differentemente, aveva fatto il poeta francese. Campana, fino al suo internamento a Castel Pulci, lotterà per la sua poesia e per una vita che non era mai riuscita a donargli nulla in termini di serenità e pace; e anche la strada dell'amore, il suo incontro con Sibilla Aleramo, si trasformerà in una sconfitta.

Come scrive Carlo Bo nel saggio "La nuova poesia: Storia della letteratura italiana - il Novecento" (Garzanti, 2001):

«... il destino così doloroso di Dino Campana risponde precisamente a un problema sollevato dal giovane Victor Hugo, verso il 1834. La domanda di questo allora quasi sconosciuto Hugo era: "Jusqu'à quel point le chant appartient à la voix, et la poésie au poète?". Domanda di una inesauribile novità e contro cui nulla hanno potuto le innumerevoli esperienze poetiche in più di un secolo, anzi direi che rimane confermata dalle maggiori audacie degli esempi più usati: l'autorizzano Baudelaire, Rimbaud e la storia dei surrealisti. Noi sappiamo i nomi che mancano, quello di Dino Campana va fatto senza timore.»

Eugenio Montale fu tra i primi estimatori ufficiali, il più autorevole a oggi, delle composizioni di Dino Campana, tanto da dedicargli una poesia o meglio un omaggio a chi meglio di lui aveva saputo piegare le parole fino a renderle ancora più oscure.

Sebbene i canti di Dino Campana affondino ben oltre il simbolismo francese, direttamente nelle radici della nostra terra toscana, Campana guarda al Trecento dantesco, al Cavalcanti, al Dante della Commedia fino ad arrivare ai canti del Foscolo, ed è toccante l'allusione dantesca con cui Eugenio Montale chiude questa struggente lirica di stampo biografico, e proprio per questo ancor più provocatoria: "fino a quando riverso a terra cadde!".