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S.  PIETRO PIANGENTE  di  GUIDO RENI   (1575-1642)

 Grande e bella stampa  da incisione su lastra di rame   di  V. BENUCCI, dopo disegno preparatorio di F. CALENDI , dell'opera di GUIDO RENI.  Stampa pubblicata da Luigi Bardi  nella raccolta GALLERIA DI PALAZZO PITTI, opera imponente in vari volumi, dedicata al Granduca di Toscana, nel 1842.   Misura cm. 47,5x32 circa, la sola incisione (compreso la schiacciata) cm 23X30 circa.

La stampa è in cartoncino robusto  e il retro è naturalmente bianco. E' in ottime  condizioni. Controllare le immagini. 
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Guido Reni

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Autoritratto (1602-1603 circa), Roma, Galleria di Palazzo Barberini

Guido Reni (Bologna4 novembre 1575 – Bologna18 agosto 1642) è stato un pittore e incisore italiano, uno dei massimi esponenti del classicismo seicentesco[1].

Indice

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

Reni nacque a Bologna nell'attuale Palazzo Ariosti di via San Felice 3 da Daniele, musicista e maestro della Cappella di San Petronio e Ginevra Pozzi; venne battezzato il 7 novembre nella chiesa metropolitana di San Pietro. Un'erronea tradizione che risale alla fine del Settecento lo fa nascere a Calvenzano (Vergato), nell'Appennino bolognese.

Nel 1584, a dire dello storico Carlo Cesare Malvasia che conobbe il pittore, abbandonò gli studi di musica a cui era stato avviato dal padre per entrare nell'avviata bottega bolognese del pittore fiammingo Denijs Calvaert, amico del padre, che si impegnò a tenerlo per dieci anni. Ebbe per compagni di apprendistato pittori destinati a grande successo come Francesco Albani e il Domenichino e sappiamo che studiò in particolare le incisioni del Dürer e di Raffaello.

Morto il padre il 7 gennaio 1594, Guido lasciò la bottega del Calvaert per aderire all'Accademia degli Incamminati, scuola di pittura fondata dai Carracci nel 1582 col nome di Accademia dei Desiderosi (il nome fu cambiato nel 1590). Qui approfondì la pittura ad olio, l'incisione a bulino (riproducendo ad esempio l'Elemosina di San Rocco di Annibale) e copiando a più riprese singole parti dell'Estasi di Santa Cecilia, allora esposta nella chiesa di San Giovanni in Monte.

Qui mostrò il suo talento: il Malvasia riferisce l'aneddoto del suggerimento dato da Annibale a Ludovico Carracci, di non gl'insegnar tanto a costui, che un giorno ne saprà più di tutti noi. Non vedi tu come non mai contento, egli cerca cose nuove? Raccordati, Lodovico, che costui un giorno ti vuol far sospirare.

Nel 1598, già pittore indipendente, dipinse la Incoronazione della Vergine e quattro santi, oggi nella Pinacoteca di Bologna, per la chiesa di San Bernardo, e vinse la gara, in concorrenza con Ludovico Carracci, per la decorazione della facciata del Palazzo del Reggimento, l'attuale palazzo municipale di Bologna: gli affreschi, commissionati per onorare la visita di papa Clemente VIII (di passaggio in occasione della devoluzione del Ducato di Ferrara allo Stato della Chiesa) e rappresentanti figure allegoriche, si erano già cancellati nell'Ottocento e rappresentarono la rottura con il suo vecchio maestro e con altri allievi dei Carracci. Sono contemporanee le tele della Madonna col Bambino, san Domenico e i Misteri del Rosario della Basilica di San Luca, due affreschi in palazzo Zani a Bologna e, tra diversi altri lavori, l'Assunzione della Vergine nella parrocchiale di Pieve di Cento. Il 5 dicembre 1599 entrò nel Consiglio della Congregazione dei pittori di Bologna.

La figura di Guido Reni è stata ripresa anche dallo scrittore tedesco Joseph von Eichendorff nel suo romanzo Aus dem Leben eines Taugenichtsvita di un perdigiorno.

A Roma[modifica | modifica wikitesto]

Sansone vittorioso (1611), Pinacoteca Nazionale di Bologna

Forse già nel 1600 ma certamente nel 1601 era a Roma, dove l'11 ottobre fu pagato dal cardinale Sfondrato per il suo Martirio di santa Cecilia della Basilica di Santa Cecilia in Trastevere: per lo stesso committente e la stessa chiesa eseguì anche l'Incoronazione dei santi Cecilia e Valeriano e una copia - questa volta intera - del dipinto bolognese di Raffaello, l'Estasi di Santa Cecilia con quattro santi, ora nella chiesa di San Luigi dei Francesi e dipinta a Bologna prima della partenza. Nel marzo del 1602 tornò nella città natale per assistere ai funerali del grande Agostino Carracci e fu incaricato di incidere a stampa le decorazioni allestite per il funerale.

Viaggiò da Bologna a Roma e di qui a Loreto, per trattare delle eventuali decorazioni della Santa Casa che furono però affidate al Pomarancio.

In questo periodo dipinse il Cristo in Pietà adorato dai santi Vittore e Corona, da Santa Tecla e San Diego d'Alcalà, ora nella Cappella della Sacra Spina del Duomo di Osimo (1601 circa) e la Trinità con la Madonna di Loreto (1604) per la Chiesa della Trinità o del Sacramento della stessa cittadina. Entrambe le opere furono richieste dal cardinale Antonio Maria Galli, un creato di Sisto V, noto in ambito storico artistico per le sue commissioni al pittore Cristoforo Roncalli, il Pomarancio.

Nel 1605 completò La crocefissione di san Pietro, per la chiesa romana di San Paolo alle Tre Fontane, ora nella Pinacoteca Vaticana, commissionatagli dal cardinale Pietro Aldobrandini. Per il Malvasia sarebbe stato il Cavalier d'Arpino a suggerire l'emulazione del soggetto, derivato dalla tela caravaggesca della basilica di Santa Maria del Popolo, per danneggiare il Caravaggio nei favori dei committenti. Ne riprodusse in parte i contrasti di luce ma tolse il dramma: la sua crocefissione è un tranquillo lavoro di artigiani, che rovesciano un santo rassegnato sulla croce e lo legano e l'inchiodano con gesti lenti e metodici.

È la sua ricerca del bello ideale, ricavato dal classicismo raffaellesco nella mediazione dei Carracci che sfiora soltanto la visione naturalistica di Caravaggio ma se ne allontana per la necessità di ammantarla di decoro; di questa esperienza, nel primo decennio del secolo, sono parte il Davide con la testa di Golia del Louvre, il Martirio di santa Caterina per la chiesa di Sant'Alessandro a Conscente, ora al Museo diocesano di Albenga in Liguria, La preghiera nell'orto di Sens e L'incoronazione della Vergine di Londra.

Strage degli innocenti (1611), Pinacoteca Nazionale di Bologna

La sua fama è così consolidata che nel 1608 papa Paolo V gli affidò la decorazione di due sale dei Palazzi Vaticani, la Sala delle Nozze Aldobrandine e la Sala delle Dame, e il cardinale Borgherini gli affreschi di San Gregorio al Celio, il Martirio di sant'Andrea e l'Eterno in gloria. L'anno dopo iniziò la decorazione della cappella dell'Annunciata nel palazzo del Quirinale, avvalendosi dell'aiuto di Francesco Albani, Antonio Carracci, Jacopo Cavedone, Tommaso Campana, ma soprattutto Giovanni Lanfranco; l'iscrizione di termine dei lavori reca la data 1610, comprendendo gli affreschi sulle pareti e la tavola dell'Annunciazione sull'altare, "con maggior applauso e meraviglia di tutta la Corte, che vi accorse ad ammirarla come cosa prodigiosa" (Malvasia).

Il 25 settembre 1609 ricevette il primo acconto per gli affreschi della cappella Paolina in Santa Maria Maggiore che interruppe alla fine del 1610, sembra per contrasti con l'amministrazione papale. Tornò a Bologna dopo il 1614, anno in cui terminò l'Aurora per il casino Rospigliosi (a Roma). La Strage degli innocenti e il Sansone vittorioso furono probabilmente iniziati a Roma e terminati a Bologna (venti scudi gli erano infatti anticipati a Roma per la commissione della Strage).

Se il Sansone è un gigante effeminato che si ristora dopo il massacro, e i morti sembrano dormire placidamente nella serenità albeggiante di una vasta pianura, nell'altra Strage, rappresentata con sei donne, due piccoli morti e due assassini, la tragedia è congelata nella misura e nella simmetria della composizione raffaellesca. Di questo dipinto, suo capolavoro assoluto, si ricordarono Poussin, i pittori neoclassici francesi e persino Picasso, che richiamò la tela di Reni in alcune parti del suo Guernica.

Tornò a Roma nel 1612, per terminare in aprile gli affreschi di Santa Maria Maggiore; il cardinale Scipione Borghese gli commissionò, per un Casino nel parco del suo palazzo, ora Palazzo Pallavicini Rospigliosi, l'affresco dell'Aurora, terminato nell'agosto 1614. Il grandioso affresco ebbe grande fortuna fino al Neoclassicismo: il carro di Apollo, circondato dalle figure delle Ore è preceduto dall'Aurora mentre sopra i quattro cavalli vola Fosforo, l'astro del mattino, con una torcia accesa; in basso a destra un paesaggio marino.

Dopo un breve soggiorno a Napoli, ancora a Roma ai primi del 1614, tornò definitivamente a Bologna nell'ottobre 1614.

Al primo viaggio di ritorno da Roma, e ai dubbi sulla sua pittura, è dedicato il romanzo biografico Il viaggio di Guido Reni, scritto da Manlio Cancogni e vincitore del Premio Grinzane Cavour del 1987 (Lit, Roma, 2013).

A Bologna[modifica | modifica wikitesto]

Ritratto della madre (1615-1620), Pinacoteca Nazionale di Bologna

Qui eseguì opere che saranno prototipo di numerose tele seicentesche come, per la chiesa di Santa Maria della Pietà, l'enorme pala detta Pietà dei Mendicanti, commissionata dal Senato bolognese, la Crocifissione ora nella Pinacoteca Nazionale e l'Assunzione della Vergine di Genova. Nel 1615 terminò di affrescare la Gloria di San Domenico nel catino absidale della nuova cappella barocca contenente l'arca del santo fondatore dell'ordine domenicano, che aveva iniziato due anni prima e subito interrotto a causa dei viaggi a Roma.

I lavori che aveva in corso, in contemporanea e su grandi formati, sia a Roma che a Bologna, necessitarono da subito la collaborazione di colleghi, assistenti e giovani praticanti. Tanti furono i giovani pittori che ambirono ad essere considerati suoi allievi, partecipando attivamente alla vita delle sue diverse “stanze” oppure passandovi sporadicamente per cogliere qualche spunto dai suoi lavori in corso d’opera; per questo motivo Reni riservava ai suoi lavori più importanti ambienti appartati, per evitare plagi da parte di giovani di passaggio e per smorzare invidie tra gli assistenti più stretti. Malvasia arriva a parlare di duecento allievi, avvertendo che, a quell'epoca, qualche artista si fregiava del titolo di “allievo di Guido Reni” per darsi importanza, quando magari era rimasto soltanto per qualche giorno all’interno di uno dei suoi atelier: «Fù tanta, e tale insomma la fama e’l grido ch’egli ebbe, che parve, che a suoi tempi non fosse stimato buon Pittore chi d’esser stato suo scolare non si fosse potuto pregiare; facendogli gran fortuna il solo nome di un tanto Maestro…».[2]

I primi che vengono citati dalle fonti, e che lavorarono concretamente sui dipinti commissionati a Reni, oltre ai già citati Albani e Lanfranco, sono i noti GessiSementiSiraniCantarini: «De gli Allievi della sua scuola è impossibile il metterne assieme un registro, anche mediocre, perché talora fù che né contassimo sino a dugento di ben cogniti, fra quali huomini insigni, e Maestri grandi; come il Lanfranchi, il Gessi, il Semente, il Sirani, il Pesarese, il Rugieri, il Desubleo, Bolanger, i Cittadini, il Randa, il Canuti, il Bolognini, Venanzio, e tanti, e tanti...».[3]

Tra i minori figura Antonio Randa, il quale passò presto all'atelier di Lucio Massari dopo un tentativo di uccisione del suo maestro Reni: «Voleva ammazar Guido per sospetto che fosse inamorato nella sua bramosia di Rosa, onde la fece nuda per Venere ancora et egli per Marte...».[4]

Nesso rapisce Deianira (1621), Museo del Louvre, Parigi

Il 20 giugno 1617 fu chiamato a Mantova per eseguire decorazioni nel Palazzo Ducale ma rifiutò per le "infermità mortali" che gli provocherebbe la pittura a fresco; in compenso, eseguì per il duca quattro tele con le Fatiche di Ercole - Ercole sul rogoErcole e ArchelooErcole e l'idra e Nesso rapisce Deianira - ora al Louvre. Altre due tele sono andate perdute (Venere e le tre grazie e il Giudizio di Paride).

Nel maggio 1622 fu a Napoli, per affrescare la cappella del Tesoro di San Gennaro nel Duomo ma non raggiunse l'accordo economico e ripartì per Roma, dopo aver dipinto tre tele per la chiesa di San Filippo Neri. Se delle presunte, oscure manovre ordite contro di lui dai pittori napoletani non esistono prove documentarie, una lettera del 20 agosto del conte Barbazzi al duca di Mantova attesta l'"estremo bisogno" di denaro del pittore, "larghissimo dissipatore".

La tela dell'Atalanta e Ippomene figurava nel Seicento nelle collezioni dei Gonzaga a Mantova. Rappresenta il mito della gara fra Ippomene e l'invincibile Atalanta, che perderà la corsa - e la propria verginità - per fermarsi a raccogliere le mele d'oro lasciate cadere da Ippomene durante la corsa. «Nudi da Erebo, fantasmi di un imbrunire perpetuo, Atalanta e Ippomene sono colpiti da una luce spettrale: evocati, richiamati dal nulla....le carni s'imbevono di una luce astratta, lunare. Una diagonale di rossori, in quel pallore livido, d'incarnati più rosei, un soffio appena vitale attraversa le mani dei due adolescenti, scalando dal volto del giovane fino alla mano della fanciulla che interrompe la corsa e si distrae a raccogliere il pomo gettato dal rivale: un gesto - lapsus, che nel suo curvo ritmo di danza scopre una nudità di membra molli, lievemente deteriorate... Atalanta assorta in un'ermetica indifferenza, Ippomene che si ritrae spaventato dalla magia fascinatrice del pomo, divergono in un rapporto di fraterna, incomunicabile solitudine» (Cesare Garboli).

Davide con la testa di Golia (1605), Museo del Louvre, Parigi

Nel 1625 firmò e datò a Roma il Ritratto del cardinale Roberto Ubaldini, ora in una collezione privata inglese, e la grande pala barocca della Trinità per la chiesa dei Pellegrini, terminata a settembre e dipinta, secondo il Malvasia, in ventisette giorni.

A questo periodo (1627) appartiene anche la celeberrima tela della Immacolata Concezione, oggi nella Chiesa di San Biagio a Forlì.

Ritornò ancora a Roma nel 1627 per eseguire gli affreschi, commissionatigli dal cardinale Barberini, delle Storie di Attila in San Pietro; impose che nessuno - «né anco i cardinali» - salisse sulle impalcature durante i lavori e tuttavia non iniziò nemmeno e ripartì bruscamente per Bologna, per l'ostilità di alcuni cardinali e della gelosia del Gessi, suo ex allievo.

Vergine in preghiera - olio su tela. 50x40 cm, 1627 circa, Roma, Fondazione Sorgente Group

Durante questa permanenza a Roma dall'ambasciatore spagnolo ricevette la commissione del Ratto d'Elena, ma non si accordò sul compenso e fu allora venduto in Francia a Monsieur de la Vrillière: è una fredda e decorativa scena da melodramma cortigiano, diversamente dal Ritratto del cardinale Bernardino Spada, conservato nell'omonima Galleria romana, donato dal pittore all'amico cardinale, legato pontificio a Bologna. Lo Spada è rappresentato con evidente simpatia e una resa vibrante di colori che ne esalta l'aspetto aristocratico e intelligente in un contesto di compostezza e decoro.

Superata la tremenda peste del 1630, il Senato bolognese gli commissionò la pala votiva della Madonna col Bambino e santi, criticata dai contemporanei per la sua seconda maniera: schiarisce le tonalità, intridendole di argento, come si nota anche nella delicata Annunciazione di Ascoli Piceno.

Gli ultimi anni[modifica | modifica wikitesto]

San Sebastiano, 1640-1642, Bologna, Pinacoteca Nazionale

Prima del 1635 eseguì su seta, per il cardinale Sant'Onofrio, fratello del papa Urbano VIII, il San Michele arcangelo. Celebrato come esempio di bellezza ideale, il Reni, in una lettera, scrisse di aver voluto avere «pennello angelico o forme di Paradiso per formare l'Arcangelo o vederlo in Cielo; ma io non ho potuto salir tant'alto ed invano l'ho cercato in terra. Sicché ho riguardato in quella forma che nell'idea mi sono stabilita».

Fanno parte della produzione ultima le Adorazioni dei pastori di Napoli e di Londra, i San Sebastiano di Londra e di Bologna, la Flagellazione di Cristo di Bologna, il Suicidio di Cleopatra e la Fanciulla con corona, entrambe nella Pinacoteca Capitolina e un San Pietro piangente in collezione privata[5]. Sono opere che il Malvasia definì incompiute: eseguite a pennellate veloci e sommarie, secondo un'intenzione stilistica che la critica, dal Novecento, riconobbe invece come consapevole scelta estetica. Per il suo biografo, a causa dei debiti, il pittore fu costretto negli ultimi anni «a lavorare mezze figure e teste alla prima, e senza il letto sotto; a finire inconsideratamente le storie e le tavole più riguardevoli; a prender denaro a cambio da tutti; a non ricusare ogni imprestito da gli amici; a vendere, vil mercenario, l'opra sua e le giornate a un tanto l'ora».

Sembra certo che soffrisse di depressione: «comincio a non piacere più nemmeno a me stesso», scrisse, e confessò di pensare alla morte «conoscendo essere vissuto assai, anzi troppo, dando fastidio a tanti altri, forzati a star bassi finch'io vivo».

Il 6 agosto 1642 fu "colto da febbri" che lo portarono a morte il 18 agosto, a 67 anni. Il corpo fu esposto vestito da cappuccino e sepolto nella cappella del Rosario della basilica di San Domenico, per volontà del senatore bolognese Saulo Guidotti, legato al pittore da profonda amicizia. Accanto a lui giacquero poi anche le spoglie di Elisabetta Sirani, figlia di Giovanni Andrea Sirani, suo allievo prediletto...



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