Luca Sforzini Arte - Galleria d'Arte italiana ed internazionale
presenta : GIANDANTE X.
Titolo : Studio di figura
Anno : 1928
Tecnica : Grafite su carta, montata su
cartoncino nero
Dimensioni : cm
4,5x2 ca.
Note : L’opera verrà corredata
di Certificato di Autenticità della Galleria Luca Sforzini Arte.
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GIANDANTE X (Milano 1899-1984) – artista e
anarchico
- Arte, Storia e Politica nel
"Secolo breve" –
di Luca Sforzini
“La mia arte è una fontana senz’acqua. Quando
il mondo è fango, è menzogna anch’essa. Gli uomini d’oggi, ricordatevi, hanno
più bisogno d’esempio che di pane”.
“Nullo Viandante”, alter ego di Giandante X,
distilla queste parole nel racconto “L’ultimo cireneo” di Leonida Repaci. E’
solo il 1923; Giandante X, al secolo Dante Pescò (Milano 1899-1984) non ha che
24 anni ma ha già dimostrato di volere e saper coniugare implacabilmente
pensiero e azione.
E’ certo presago di un arduo futuro, ma quanto
i suoi destini personali siano intrecciati con la Storia d’Italia e d’Europa
sarebbe stato difficile prevedere, in quel 1923. Quel ventennio agli esordi non
avrebbe tardato a presentare il conto.
Una vita non banale quella di Giandante,
paradigma di una generazione che ha attraversato una fase cruciale della storia
italiana ed europea, e dei rapporti tra arte, artisti, storia e politica –
raramente indagati.
Urge un passo indietro. Dante Pescò nasce a
Milano nel 1899 da una ricca famiglia dell’imprenditoria lombarda; suo padre ha
un florido opificio tessile, a cui Dante sarebbe naturalmente destinato. Fin
dalla più tenera età, però, Dante manifesta un ingegno brillante, una
propensione all’introspezione ed allo studio che gli valgono ampi
riconoscimenti scolastici, ma anche un interesse per l’estetica e per l’arte,
ed una crescente inclinazione all’astrazione ed alla contemplazione
difficilmente conciliabili con la praticità paterna. Fin da ragazzo dimostra
una spiccata propensione per il disegno, che coltiva alla scuola di arti
decorative del Castello sforzesco di Milano e ad alcuni problemi sociali,
propensione che allarma i professori. Studia ed è affascinato da Arnaldo da
Brescia e Savonarola. Cresce così in lui l' insofferenza all’atmosfera
familiare ed alla quiete borghese di casa.
Nel 1915 l’Italia entra in guerra : la
maggioranza della popolazione resta indifferente, sostanzialmente neutrale, ma
in alcune grandi città del nord dilaga una febbre interventista d’ ascendenza
risorgimentale : lo straniero va cacciato fuori dai confini naturali, oltre il
Piave.
Così, la Storia bussa alla porta di Giandante
già nel 1917 : la disfatta di Caporetto fa prevedere che i ragazzi del ’99 sian
chiamati a colmare i vuoti dell’esercito italiano in rotta, e Dante anticipa i
tempi. Abbandona la famiglia; tenta di partire per il fronte col Battaglione
ciclisti degli Alpini, che già annovera tra le sue fila i volontari futuristi
Sironi, Balla, Boccioni e Carrà.
Il numero dei morti nelle prime battaglie
sull'Isonzo supera il numero di tutti i caduti del Risorgimento; i
soldati marciscono in trincea per interminabili settimane tra topi, pidocchi,
sangue e liquidi organici; l’orrore di dimensioni mai prima conosciute, pare
poter finire "solo per esaurimento di uomini e mezzi" - come nota con
preoccupazione il generale Luigi Cadorna .
Per sua fortuna, gli studi ancora da concludere
e l’età assai acerba rispediscono presto Dante lontano dalle linee nemiche, ma
lui ha ormai affermato, con slancio volontaristico, la propria libertà ed ha
preso con forza tra le mani il suo destino. Non lo lascerà mai più. Da quel
momento è soldato in pace come in guerra, nella quotidiana battaglia per render
la sua vita conforme al Mito dell’Arte come strumento di riscatto suo personale
e dell’Umanità intera. Tutto va sgretolato dalle fondamenta : non può bastare
correggere uno schema sociale ereditario, bisogna distruggerlo per edificare
sulle sue rovine città nuove e un Uomo nuovo.
Con la Prima Guerra Mondiale il mondo ha
scoperto a sue spese il duplice volto della tecnica : le macchine, le nuove
scoperte, possono esser indifferentemente strumenti di bene o di male, al
servizio del progresso o della distruzione. Gli aderenti al Novecento,
sensibili alla tradizione, semplicemente ignorano il problema e le sue
conseguenze sociali ; i futuristi invece idolatrano la macchina, ne fanno
un Mito, attribuiscono al progresso tecnico facoltà taumaturgiche risolutive
della crisi in atto. Dimostrandosi indipendente da qualunque raggruppamento,
Giandante riconosce al progresso tecnico il dono di poter affrancare l'uomo
dalla fatica, ma rifiuta alla macchina il ruolo di sprone alla creazione
artistica. La macchina – secondo Giandante - non potrà arrestare la crisi né
tantomeno risolverla fino a quando lo spirito – l’Uomo, sempre al centro della
sua missione - non l’avrà piegata ai fini superiori cui è destinata.
La Prima Guerra Mondiale ha anche quasi
completamente troncato l' attività degli architetti e rallentato quella dei
pittori. Lo slancio dato alla cultura europea - fin dal 1914 - dal Werkbund
tedesco per l’architettura e dai movimenti pittorici, subisce un’
inevitabile battuta d’ arresto; le premesse del rinnovamento artistico, però,
sono solide e fondate. Si tratta, nel dopoguerra, di metter al passo l'
azione culturale con i progressi tecnici, sociali ed economici accelerati dalla
rivoluzione industriale. In Italia, il disorientamento e le incertezze sono
notevoli.
Dante si rituffa nello studio con furore quasi
mistico, insensibile a qualunque distrazione e sottraendo tempo anche al sonno.
Si laurea in Architettura a Bologna all’età di 19 anni, e viene abilitato
subito dopo alla docenza : è il più giovane Professore d’Architettura d’Italia.
Il Collamarini, famoso per i suoi interventi in San Petronio, lo definisce
pubblicamente “novello Sant’ Elia dell’ architettura moderna” . Sant’Elia è il
principale e primo architetto futurista, in un periodo in cui il futurismo è
l´avanguardia artistica del mondo; con la sua morte, nel 1916, il movimento
futurista perde tutto ciò che ha da dire in architettura, e con l’avvento del
fascismo si avvierà al completo svuotamento, venendo a coincidere con la
dittatura - che come tutte le dittature impone ed alimenta il ritorno al
neoclassicismo.
Dante si qualifica, da ora, anche nei suoi
biglietti da visita, a volte come “professore” ma sempre e spesso solo come
“architetto” : “costruttore” d'avvenire quindi, edificatore di un nuovo modo di
abitare il mondo.
Due anni dopo si laurea anche in Filosofia;
l’Accademia di Brera gli offre il posto di assistente alla cattedra
d'Architettura , il Comune di Milano gli chiede di far parte della Commissione
Edilizia ed Artistica della città . Dante rifiuta tutte le proposte – come farà
per tutta la vita : ha un Ideale più alto a cui sacrificare ogni ora del suo
tempo.
Sceglie ora lo pseudonimo che manterrà tutta la
vita. Spinge il retaggio borghese paterno oltre l’ultimo passo sull’orlo dell’abisso,
e ne cancella anche, con il cognome, la memoria. Come scrive lui stesso in
alcune note autobiografiche " (…) si dichiarò Giandante; realmente fu un
viandante, perché non ebbe mai sosta e, fu anche un crociato, perché sulle sue
spalle s'applicò l'enorme Incognita X (eterno divenire)" .
Efficacemente nota Edoardo Varini : "da ora è Giandante, che viene
da "viandante", con quella G davanti che vale "God", Dio,
il Grande Architetto dell'Universo, e quella X in coda che vale l´Incognito che
inscalfibile ci attornia" . Si mantiene scrivendo di arte ed architettura
su giornali e riviste e su questi argomenti tiene spesso pubblici dibattiti.
Peraltro le sue esigenze pratiche son ridotte al minimo.
Giandante si impone una disciplina di vita
ascetica, pari alla missione che s’è dato : mangia un solo pasto al giorno,
freddo - riso in bianco, pane e acqua; si alza ogni mattina alle cinque, si
allena per un’ora, fa una doccia gelida e poi studia e lavora implacabilmente,
ai limiti del misticismo, fino a notte.
Indossa in ogni occasione un abito scuro,
calzoni da soldato, scarponi chiodati, e un pastrano nero che potrebbe anche
apparire elegante, se il suo viso scavato, magrissimo, freddo, sbarbato,
demoniaco, non gli togliesse qualunque idea di vanità. Gli occhi neri ed
incavati sotto la fronte spaziosa ed uno sguardo tagliente, gli conferiscono un
aspetto pensosamente fiero. Il suo passo ha dell’ assalto.
Esordisce alla prestigiosa Galleria Vinciana, a
Milano, nel 1920. E’ un esordio – con ben venticinquemila disegni a china
- simbolista, con accenti art nouveau, ma già portatore dei semi di asciuttezza
del Costruttivismo russo. In quegli anni il Costruttivismo è ancora ignoto al
di qua delle Alpi - gli scambi dell'Italia con l'estero sono rari - eppure Giandante
ne pare già consapevole : forse ne ha notizia attraverso la Scuola di arti
decorative del Castello Sforzesco, prezioso nodo di scambio di libri con
l'Europa fin dai primi anni '20 . E’ quello l’ anno in cui Ozenfant e Le
Corbusier fondano la rivista “L’ esprit nouveau” per verificare la
semplificazione che si voleva instaurare nelle immagini artistiche, e il
pensiero di Giandante tende a coincidere con le idee di Gropius : sostiene
l’idea di un’architettura lineare e chiara in contrasto con la falsa, vuota
monumentalità di facciata e con gli stilismi tanto in voga all’epoca. I suoi
carboncini architettonici del 1920 sembrano modelli del Palazzo della Civiltà
Italiana realizzato più di vent'anni dopo da Marcello Piacentini. Si accorge
della crescente importanza dell’ urbanistica, ed auspica l’ adozione di
tecniche e materiali nuovi per fondare anche attraverso un’ architettura che
vada “verso il popolo” con requisiti di funzionalità ed estetica - una
società edificata su principi nuovi, ove l'uomo possa vivere libero dal bisogno
e dallo sfruttamento. Come sostiene Gropius, bisogna porre le esigenze
umane fondamentali al di sopra di quelle industriali ed economiche delle
officine.
La Mostra alla Vinciana è un successo.
Margherita Sarfatti, influente madrina, esprime fiducia negli esiti futuri di
Giandante “lavoratore accanito ”; molti altri lo notano e lodano : Carlo
Carrà, e il grande scultore Adolfo Wildt in primis, che ne patrocina
ufficialmente la Mostra e lo definisce “vergine di ogni accademismo ”. Sarebbe
un'occasione propizia per far fruttare il fortunato esordio stringendo
relazioni ed amicizie eccellenti. Giandante, però, rifugge ogni aggregazione ed
opportunismo.
Avendo tenuto i contatti con la cultura europea
attraverso le letture e le amicizie, intuisce che bisogna evitare gli
estremismi; si pone, tra i tradizionalisti ed i futuristi, in una posizione di
ragionevole adesione ai problemi ed alle istanze dei tempi nuovi. Già emerge in
lui una forte sensibilità politico-sociale, in pittura come in scultura : i
suoi uomini, i suoi volti, non sono luttuosi come le maschere tragiche bensì
orgogliosi, quasi miti eroici : in essi non c'è un seme di rovina - tipico del
simbolismo - bensì di riscatto, in piena tensione etico-politica.
In una foto degli anni ‘20, conservata nel suo
archivio, una scritta campeggia nello studio di Giandante : “L'uomo è Dio”.
Creatore e creature non sono scissi ma uniti, e come nella Tavola
Smeraldina "ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto
è come ciò che è in basso per fare i miracoli della cosa una". L'uomo non
è soggetto a nulla se non a se stesso : questo umanesimo mistico, questo
ascetismo anacoreta, è negazione d'ogni autorità trascendente. Purtroppo
l’individuo, l’ ”Uomo” di Giandante è destinato dalla Storia a finire a breve
dritto nelle fauci di un potere totalitario: un regime che non può per sua
natura concepire l'uomo se non come cellula dello Stato, ingranaggio di un
meccanismo.
Siamo agli esordi del fascismo : superfluo in
questa sede ricordare la nascita dei Fasci di combattimento in Piazza San
Sepolcro proprio a Milano, le prime spedizioni di squadracce in giro per le
campagne, gli assalti alle Case del Popolo ed alle sedi delle associazioni
operaie, le violenze dilaganti.
Non a caso già in questo periodo è difficile
per Giandante far accettare le sue idee, le sue figurazioni essenzialmente tese
verso uno stadio superiore dell’Uomo. Giandante, quasi inconsapevolmente e suo
malgrado, dato il respiro internazionale dei suoi studi e sensibilità, aveva
bruciato le tappe del progresso culturale. Si trovava così naturalmente,
ed in grande anticipo sui tempi, sulle posizioni dell’ avanguardia europea e
quindi, in patria, nel quasi assoluto isolamento.
Non lo capisce praticamente nessuno; è quasi
deriso, circondato dall’indifferenza, frainteso dal pubblico e dalla critica,
ad eccezione degli ingegni più aperti e sensibili che lo seguono in un'attesa
fiduciosa : Bruno Munari, gli allora giovanissimi Birolli, Manzù, De Rocchi,
Del Bon - che riconosono in lui un combattente generoso e disinteressato per
una causa comune a tutti coloro che non voglion posporre l'interesse
dell'arte ad una situazione contingente o di parte. A questi si aggiunge la
famosa collezionista svizzera Madame H. de Mandrot La Sarraz, una sorta di
Peggy Guggenheim del primo dopoguerra, che acquista due suoi collages . A
Milano è assai raro che Giandante riesca a vendere qualche opera; così,
continua a mantenersi con l’ attività giornalistica, scrivendo soprattutto di
architettura e sulle arti figurative in generale, ed applicandosi alla grafica
per la stampa.
E’ proprio al terreno concreto dell’ arte a cui
Giandante affida il compito di conoscersi e comunicare con gli altri. Ma in
quei tempi, nel bene e nel male straordinari, neppure l’Arte/Mito, mistica
divinità a cui Giandante ha immolato la vita, pare poter bastare.
Giandante cerca fratelli di lotta, e li trova :
nel 1921 è tra le fila degli Arditi del Popolo - il corpo volontario
apartitico che fa fronte con armi analoghe alle violenze delle squadre
fasciste. Con tutta evidenza Giandante sa come usare un’ arma : se così non
fosse, ben difficilmente avrebbe potuto farne parte. Gli Arditi non hanno
l'appoggio né del Partito Socialista, moderato per vocazione, né del Partito
Comunista, diffidente verso l’irriducibile autonomia d’una formazione
trasversale dove confluiscono militanti d'ogni estrazione politica e sociale :
repubblicani, socialisti, anarchici individualisti; eppure gli Arditi arrivano
a contare 20.000 militanti in tutt'Italia ed ottengono successi “militari” a
Sarzana ed a Parma, minando l’aura d’inarrestabilità degli avversari. Solo il
patto di pacificazione sottoscritto da fascisti e socialisti - col governo
Bonomi nel ruolo di garante - ferma gli Arditi : la neutralità dello Stato, con
una monarchia tormentata dall’incubo degli eventi del 1918 in Russia, è
ovviamente solo apparente. Così mentre le azioni delle camice nere sono
tollerate, gli Arditi si ritrovano contro tutto l'apparato repressivo dello
Stato e si dissolvono.
Ma Giandante non si arrende : scrive “il mondo
è in tempesta - ebbene l'Arte deve essere una bufera ”. Nel 1922 risulta
esser uno dei due coordinatori del nucleo milanese dei Gruppi Segreti di Azione
di Guido Picelli, fondati per “difendere i diritti dei lavoratori del braccio e
del pensiero”, e per “preparare materialmente e moralmente i lavoratori
al fine di costituire in Italia l'organo forte, tecnicamente capace e pronto a
passare all'offensiva al momento opportuno". I Gruppi raccolgono tra gli
operai fondi necessari all'acquisto di “oltre 500 moschetti pronti all'uso”,
come si legge in una nota della Polizia di Stato .
Nello stesso anno fonda il gruppo antifascista
delle Cappe Nere (un’eco delle associazioni carbonare) che si riunisce nei
sotterranei del Duomo per discutere di filosofia, storia, arte e antifascismo e
per contribuire così, con la parola e con l’azione, ad instaurare una nuova
etica sociale. Scoperto e arrestato nel 1923 con l’esecutivo del gruppo, viene
prosciolto in virtù di una sorprendente autodifesa (e della fortunosa
circostanza di non aver con sé armi all’atto dell’arresto). "Già
varie volte arrestato, quella sera gli fu fatale: e, sotto la tortura rasentò
la pazzia" scrive lui stesso di sè. In carcere si taglia i polsi,
"per protestare contro i ritardi del processo ", come dirà poco dopo
a Pietro Longo, anche lui a San Vittore in quei giorni. Longo non dimenticherà
mai questo gesto, né le parole "di ordinaria amministrazione" con cui
Giandante gliene parlò l'indomani .
Nelle sue poesie emerge il fiero ricordo di
questa esperienza : “Nessuna inquisizione / fece paura al prigione" .
”. Da allora viene schedato come
"nichilista incendiario", posto sotto osservazione e
imprigionato preventivamente a ripetizione ad ogni arrivo a Milano di qualche
gerarca o personaggio di rilievo.
Di fatto gli si fa il vuoto attorno, un vuoto
grave, pesante sull’ anima perchè è solo a combattere per l’ indipendenza
spirituale della creazione artistica. Pochi lo capiscono, molti lo evitano
anche per paura o per semplice, amarissima diffidenza. Viene espulso dall’ albo
degli architetti e l’ indigenza si fa miseria. Dopo i fatti del 1923 e per
parecchi anni il suo isolamento diventa ermetico. Quasi nessuno può accedere al
suo studio, assai raramente anche gli amici piu sinceri tra cui Giolli, Repaci
o Titta Rosa.
Partecipa intanto alla prima Biennale delle
Arti decorative di Monza, dove espone una serie di disegni di case idealizzate,
squadrate, lisce, cubiche, prismatiche e piramidali - come monoliti marmorei.
Vince così la medaglia d'oro della Camera di Commercio e Industria di Firenze,
e riceve da Albert Boken, Presidente dell'Associazione Architetti d'Olanda, una
proposta di collaborazione alla prestigiosa rivista d'arte De Stijl, autentico
cuore e laboratorio del neoplasticismo europeo . La città ideale di Giandante
resta sempre solo sulla carta (in un tempo in cui i committenti sono pubblici
poteri o altoborghesi prossimi al regime) : niente planimetrie nè
ipotesi di inserimento urbanistico. Proprio questo, però, libera Giandante da
ogni problema pratico, lasciandolo concentrarsi sul rinnovamento dell'immaginario;
ricerca l'unione tra materia, etica e morale. Così le sue visioni
architettoniche partecipano a pieno titolo all'edificazione della modernità. Le
sue sono sperimentazioni audaci, sintesi architettoniche nuovamente di respiro
europeo – mentre il resto d’Italia si attarda sul gusto neoclassico o al
massimo Liberty.
Il fascismo, giova ricordarlo, non ha ispirato
un “suo” originale stile artistico ma si è limitato a fagocitare quanto nel
panorama esistente risultava funzionale ai suoi fini propagandistici; lo teorizza
serenamente, quasi candidamente lo stesso Bottai. Così, è improprio parlare di
arte fascista : più corretto parlare di artisti fascisti o compiacenti.
Esemplare a questo proposito è la vicenda del
futurismo, ancora oggi nell’immaginario collettivo spesso considerato il “fiore
all'occhiello” del fascismo. Il manifesto futurista risale al 1909, ben 13 anni
prima della nomina di Mussolini a capo del Governo; Umberto Boccioni e Antonio
Sant'Elia morirono nella Prima guerra mondiale senza aver mai sentito nominare
il fascismo.
L’ “alleanza” tra futurismo e fascismo maturò
quindi per ragioni pratiche e mercantili, su comune iniziativa, essenzialmente
propagandistica e reciprocamente opportunistica, di Filippo Tommaso
Marinetti e Benito Mussolini - non per affinità estetica o poetica : un
proficuo e ben calcolato accordo tra le parti. Così Giacomo Balla definisce
Mussolini "l'artefice intuitivo". In gioventù Filippo Tommaso
Marinetti aveva scritto : "Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche,
le accademie di ogni specie "; ora diviene membro dell'Accademia d'Italia.
Anche il movimento “Novecento” è prefascista,
riconducibile all’estetica europea del cosiddetto “ritorno all'ordine” ; ma
anche in questo caso, molto banalmente, il gruppo - composto da più di 130
artisti - sotto l'egida del regime può organizzare mostre nazionali e
internazionali, congressi, dibattiti. Lo stile “Novecento” - fatto di immagini
statuarie, solide, affini ai canoni classici - va a genio al fascismo,
fatalmente neoclassicista come tutte le dittature. L’avanguardia è ricerca,
esito imprevedibile; la tradizione classica difficilmente può riservare
sorprese; rassicura; calma; sopisce. Carlo Belli fregia del titolo di
"fascista" l'arte che manifesta "rispetto della forma".
L’ attività di Giandante è essenzialmente
quella di pittore e scultore ma nel 1924 comincia a collaborare con “l’Unità”
(introdottovi verosimilmente da Repaci, che ne è il critico teatrale), anche
per mantenersi. Ormai venticinquenne, da quando ha abbandonato la famiglia ha
cominciato a vivere nella piena indipendenza, di fatto nell’indigenza : alla
morte del padre aveva infatti ereditato una cospicua somma, ma l’aveva subito,
sdegnosamente, spesa in quarantott’ore - in libri (venti quintali) e (dicono)
armi .
Su “l’Unità” Giandante coltiva le sue ricerche
costruttiviste, declinandole nell’attualità storico-politica : il suo primo
disegno raffigura un uomo che brandisce la bandiera dei lavoratori davanti al
sol dell'avvenire. Linee chiare e volumi squadrati, raffigurazioni semplici,
colossali e simboliche, d'immediata forza espressiva : non più solitari
pensatori chiusi in sè bensì il pulsare delle masse : operai in marcia verso la
città futura. Grazie anche ai contatti de “l’Unità” Giandante ha occasione di
entrare in rapporti diretti con l'avanguardia sovietica in almeno due casi :
Traversi riferisce di un'esposizione in Russia nel 1925, Biscaro segnala
che il padiglione sovietico alla fiera campionaria nel 1926 è curato da
Giandante . Secondo Agnoldomenico Pica in questi anni nasce il razionalismo
italiano , con le proposte di Giandante X e del Gruppo Sette .
Un obiettivo del costruttivismo è stabilire un
circuito di comunicazione tra i membri della comunità, e la stampa risulta a
questo scopo più efficace delle gallerie d’arte : l'emancipazione del popolo
attraverso il suo ingresso nella vita politica, civile e culturale delle
nazioni passa ben più facilmente attraverso l’immediatezza di un quotidiano.
A Milano hanno sede le redazioni del
"Popolo d'Italia", finanziato dagli industriali del Nord, e de
"l' Unità", sostenuta dal Partito Comunista. Sironi pubblica sul
Popolo d'Italia, Giandante sull' Unità. A prima vista non si potrebbero
immaginare due personalità tanto distanti, eppure i due vengono spesso
accostati dalla critica d'arte. Certo i loro opposti destini (nel bene e nel
male) risultano paradigmatici di un'epoca che agli artisti ha dato e
dagli artisti ha preso molto.
Così, attorno al 1925 Sironi pubblica vignette
umoristiche che bersagliano le opposizioni - raro caso di "satira
filogovernativa" - in stile naturalistico caricaturale ricco di
chiaroscuro e sfumature; ogni risultato formale è sacrificato alla propaganda.
Giandante invece col suo essenziale, lineare, denso bianco e nero, coi suoi
uomini squadrati, prosegue in chiave costruttivista. Quando poi queste forme
simmetriche, squadrate, monumentali, titaniche, saranno assimilate e così
corrotte dal regime, Giandante non esiterà a lasciarsene alle spalle la
tetragona potenza.
Risale a questi anni oscuri il suo ritorno ai
"primitivi" - non agli artisti del medioevo italiano due/trecentesco
a cui si ispira il movimento "Novecento", bensì alla preistoria pura,
ai primordi dell'umanità, all'infanzia della civiltà. Giandante attinge
all'energia primigenia del genere umano, all'immaginazione fanciullesca, alla
grotta d'Altamira dove trova asilo ciò che la società del '900 sta
rimuovendo o rinnegando. La sua arte accusa la volontà di dominio e supremazia,
e risale alle origini del tempo - quando ancora l'uomo non si cura di stirpi o
razze.
Primitivismo a parte, Giandante non sarà
anticipatore solo del razionalismo, bensì anche dell'astrattismo - sebbene
episodicamente. Si incammina così su strade di inaudita forza innovativa : le
sue prime sperimentazioni astratte risalgono agli anni '20. Nel 1929, in
occasione dell'11ª fiera campionaria di Padova, Giandante illustra con
bozzetti astratti - composizioni cinetiche di gusto avveniristico -
l'invenzione del cinema sonoro . Si interessa alla tecnica, causa prossima
delle trasformazioni in corso in Europa e nel mondo.
Si apre anche ad una contaminazione
espressionista : il colore comincia a maculare i titani di Giandante come la
ruggine intacca il ferro. Alla fine degli anni '20 comincia dunque per
Giandante la scoperta del colore come valore plastico. Lo seguiranno, su quella
strada, i movimenti anti-novecentisti e antifascisti degli anni '30 : Corrente,
i Sei di Torino, la Scuola Romana, che tutti - tra mille difficoltà ed
ostracismi - innalzano i loro multiformi, coloratissimi vessilli di rivolta.
Chi si adegua ha invece vita facile.
Istruttivo è proprio il già citato parallelismo
alternato tra Sironi e Giandante, che durerà per tutta la vita di entrambi. Può
giovare a questo proposito anticipare i tempi lanciando uno sguardo al futuro :
mentre nel 1938, in un sottoscala di Barcellona, Giandante disegnerà i
manifesti delle Brigate Internazionali nella guerra di Spagna, Sironi starà
preparando una gigantesca annunciazione per l'Ospedale Maggiore di Milano - intanto
i suoi committenti promulgano le leggi razziali. Mentre nei primi anni '40
Sironi affrescherà Ministeri, palazzi signorili, dimore di regime, Giandante,
in campo di concentramento, si starà arrabattando con mezzi di fortuna,
disegnando su piccoli fogli da donare ai compagni di prigionia. Nonostante uno
scontro verbale tra i due, il venerato Sironi rispetterà sempre il meno
fortunato e più giovane collega. Solo nel dopoguerra i ruoli s'invertiranno -
non completamente come solo il radicale antiopportunismo di Giandante può
spiegare. L'ultimo dipinto di Sironi sarà un'apocalisse sanguigna popolata di
uomini non più monumentali ma piccoli, contenuti, tormentati moralmente in uno
scenario infernale; contemporaneamente Giandante starà dipingendo volti, montagne,
fiori rigogliosi e coloratissimi - i soggetti più gioiosi nei suoi 70 anni di
pittura.
Ma senza precorrere i tempi e tornando agli
anni '20, il superuomo di Nietsche viene ormai impastato di razzismo, virando
così da emblema filosofico a simbolo di supremazia. Nel novembre del 1926 viene
istituito il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato: i giudici non
sono magistrati di carriera bensì ufficiali della milizia - ex
squadristi. Oramai tra la gente comune l'antifascismo è vinto : chi si oppone è
morto, o in esilio, o in prigione. Molti artisti "confluiscono",
spesso per convenienza, necessità o paura, nel regime. In Italia tutto è
tranquillo e normalizzato : il fascismo ha il sostegno della corona, dell' alto
clero, della piccola e grande borghesia; per i benpensanti in tutto il
mondo Mussolini è il dittatore illuminato della civiltà latina; il New York
Times, Le Monde, Il Times, Le Figaro, hanno per lui parole lusinghiere; si
parla di miracolo; pochi irriducibili isolati continuano ad opporsi.
E’ questo per Giandante, come lo definisce
Traversi, il periodo della protesta. Mai teatrale, anzi nell’ impossibilità di
manifestare apertamente il suo pensiero. Scrive lui stesso (Giandante parla
quasi sempre di sé in terza persona) : “La lunga solitudine gli insegnò a
guardare nei cuori, come a Gesù il deserto" .
Nonostante l ‘ indigenza, conserva una pura
assenza di senso utilitaristico. Spesso regala le sue opere per amore verso il
prossimo, rappresentante dell’ umanità nei confronti della quale sente di avere
una missione da compiere.
Giandante ha le idee chiare; scrive : “Per fare
l'Arte necessita amare e perciò essere sociali. Nell’ Arte c’è tutto : noi e
gli altri ”. Così nel 1929 rompe il prolungato isolamento e scende a parlare di
conciliazione, speranza e progresso.
E’ il ventesimo anniversario della fondazione
del Futurismo, che viene celebrato alla Galleria Pesaro, a Milano. Giandante si
intrufola senza invito e, come scrive Biscaro, " (...) sembra un
soldato che vada all'assalto di una trincea, che vorrebbe costituire l'arresto
di altre idee, di altre concezioni artistiche, di altri modi di interpretare la
vita sociale ". Entra in contradditorio pubblico con Marinetti in una sala
gremita di personalità della cultura e dell’arte ; incurante delle possibili
conseguenze, attacca il Futurismo denunciandone l’inconsistenza sul piano etico
e quindi estetico; taccia il futurismo di passatismo, e probabilmente ha
ragione; ne segue un memorabile battibecco .
Come scrive Roberto Farina, "quel giorno a
Milano si fronteggiano la modernità e la reazione; alla retroguardia erta sullo
sfacelo dei popoli si contrappone l'avanguardia di un uomo riemerso da quello
sfacelo ". Alla nascita il futurismo aveva incoraggiato chi in
Italia cercava una via d'uscita dalla tradizione asfissiante; Marinetti
aveva rinfrescato l'aria nazionale spregiando le viltà opportunistiche e
spronando all'audacia, al coraggio, alla ribellione ; anche Giandante ne
aveva subito il fascino a 16 anni. Venti anni dopo Marinetti era ormai passato
in retroguardia, aveva chiuso gli occhi di fronte ai mutilati dalle nuove armi
di cui continuava a cantare l'energica violenza, spesso comodamente assiso tra
i velluti rossi dell'Accademia d'Italia.
Giandante si dichiara extra-espressionista
costruttivista , inserendosi così con forza e decisamente nel dibattito tra
Futuristi e Novecentisti. Giandante vuole unire la passione dell'espressionismo
e la razionalità del costruttivismo, affinché visioni e azioni siano una cosa
sola; vuol far convergere soggettività e oggettività, individualismo e
collettivismo, vuole ricondurre gli opposti all'unità come le avanguardie
europee.
I tempi non sono mai stati così cupi in Europa
: è quindi indispensabile unire le forze in una sintesi che porti l'individuo e
le masse a una nuova armonia di pensiero e di azione.
Nemico dichiarato di ogni opportunismo ed
arrivismo, Giandante denuncia l’ inanità dell’ arte direttamente o
indirettamente influenzata dalla politica. Giolli nel 1930 scrive che ”in
realtà ogni artista vitale è al centro anche se talora si dichiara di una
teoria estremista" . E’ l’ esatta posizione spirituale di Giandante.
Scrive Edoardo Varini : "Uno così non lo
tieni, uno che crede che l´unica vera arte sia la lotta per la libertà, a chi
ha venduto l´anima al potere fa paura ". Il regime quelli come lui li
perseguita, perchè li teme.
Ciò che ne segue è conseguenza pressoché
inevitabile. Dopo anni di angherie, bastonature, minute persecuzioni
quotidiane, Giandante nasconde come può opere, carteggi, libri e documenti e
nel 1933 lascia clandestinamente l’Italia. Le guardie di confine hanno l'ordine
di sparare senza preavviso su chiunque cerchi di varcare senza autorizzazione,
e molti lo crederanno morto nel tentativo. Non è così.
Giandante decide la fuga attraverso la
Svizzera; entra clandestinamente in Francia e raggiunge Parigi, dove vive per
tre anni di lavoretti, principalmente da decoratore. Temendo, nella sua
condizione d' illegalità, di compromettere gli amici - che pur trova in terra
di Francia - rifugge ogni relazione sociale, accentuando così la sua naturale
propensione alla solitudine.
Siamo ormai al 1936 e la Spagna sale -
tragicamente - sul proscenio d'Europa. Il Fronte Popolare vince le elezioni e
comincia a sottrarre spazio e potere alla Chiesa, ai latifondisti ed
all'esercito; ha in programma la riforma agraria, la riorganizzazione del
lavoro, dell'Università, dell'esercito e dell'apparato burocratico; si parla di
voto alle donne e di legge sul divorzio; s'immagina di rafforzare le scuole
pubbliche e le autonomie regionali. In sintesi : c'è odore di rivoluzione.
Pronta scatta la reazione a difesa del tessuto tradizionale della società
spagnola - guidata da un direttorio di generali con a capo Francisco Franco : è
lo scoppio della guerra civile.
Appresa la notizia, Giandante ne avverte
l'irresistibile richiamo. Lascia Parigi e giunge in Spagna, dove prende subito
parte alla battaglia di Monte Pelato - inquadrato nella colonna Rosselli;
quindi raggiunge Barcellona. Si ritrova alla caserma Carlos Marx in compagnia
di altri giovani italiani, polacchi, francesi, austriaci e jugoslavi che
arrivano per esser arruolati : sono circa 50.000, e parlano 52 lingue diverse .
Germania ed Italia appoggiano Franco, armandone
le truppe fino ai denti e riversando in Spagna incalcolabili tonnellate di
piombo (per decenni i bambini spagnoli giocheranno con i bossoli disseminati
sulle terre dell'Ebro). In una guerra civile tra spagnoli, Giandante -
equipaggiato, come i suoi compagni, con armi difettose e residuati bellici - si
ritroverà quindi, dolorosamente, ad esser un italiano contro altri italiani.
Dopo un periodo di trincea nella 134^ Brigata
Mista, viene assegnato da Luigi Longo alla direzione artistica della Propaganda
delle Brigate Internazionali : in fondo, l'arte è l'arma migliore di
Giandante.
In occasione di offensive, programmate o previste
dall'una o dall'altra parte, si preparano manifesti con poche parole di
propaganda e disegni semplici ed espressivi che incitano a resistere, reagire,
abbattere il nemico. Servono come incoraggiamento, e per sollevare il morale
degli uomini. Li si attacca sui muri delle case, lungo le strade della zona di
battaglia, li si riproduce in piccoli volantini lanciati a milioni sulle linee
nemiche . Qui Giandante produce idee grafiche, disegni, bozzetti per giornali,
manifesti, volantini e cartoline che lasceranno il segno nella grafica
repubblicana e ne diverranno un simbolo identificativo; disegnando i manifesti
di propaganda delle Brigate Internazionali, Giandante torna a lavorare in un
bianco e nero netto ottimale per la stampa : sostituisce i picconi con le
baionette, ed usa un tratto più flessuoso di quello usato per "l'
Unità", ma altrettanto incisivo.
La guerra intanto fa il suo corso. Nel 1937
sull'altopiano di Guadalajara, a pochi chilometri da Madrid, le Brigate
Internazionali fermano l'avanzata dell'esercito franchista - composto
principalmente da truppe inviate da Mussolini; la Brigata Garibaldi, costituita
interamente da italiani, ha un ruolo decisivo nella vittoria repubblicana,
ricordata come la prima sconfitta militare del fascismo. Giandante è lì, e
l'EIAR diffonde in Italia la falsa notizia della sua morte nella corso della
battaglia. "(…) Il compianto per la morte di Giandante - scrive Rèpaci
anni dopo - fu generale nell'ambiente artistico milanese. Si riconobbe il genio
di Giandante (il talento non bastava più); si scoprì la bellezza di una vita
spesa per l'ideale; si pensò da molti al miglior modo di dare a Giandante morto
la gloria che Giandante vivo non aveva potuto raggiungere per il fariseismo
dominante, si progettò una grande retrospettiva di Giandante che offrisse un
quadro completo delle eccezionali capacità dell'artista; (…)" Chi aveva
contribuito ad isolarlo, chi non aveva mosso un dito, se ne pentì; chi lo aveva
perseguitato con misure di polizia se ne vergognò. "La gloria postuma
di Giandante durò alcuni anni, fino alla caduta del fascismo, quando egli
rientrò in Italia. (...) Ci fu chi lo ignorò per la rabbia di averlo visto
sopravvivere a se stesso; ci fu chi gli rifece il deserto intorno per il
dispetto di averlo dovuto riconoscere da morto, ci fu chi giurò a se stesso che
neppure la morte vera avrebbe più spostato l'ago della bilancia ”.
A dispetto dell'EIAR Giandante è ancora lì, a
combattere.
Le file antifasciste sono intanto lacerate da
guerre intestine, divise sulle strategie; comunisti ed anarchici si scambiano
accuse d'intelligenza col nemico. In estrema sintesi : i comunisti vogliono
vincere la guerra a prescindere da come; gli anarchici sono interessati anche
al modo in cui la si vince. Divampano sanguinose lotte interne, ed i
repubblicani sbandano.
Nel 1939 Barcellona viene bombardata per tre
ore di fila ; la città diventa un ammasso di cemento sbriciolato, vetri
frantumati, buche, macerie, rifiuti, sangue e cadaveri. E' il 26 gennaio quando
l'esercito franchista vince l'ultima resistenza in città; Barcellona cade. Quel
giorno comincia il grande esodo degli antifascisti, principalmente verso la
Francia; Giandante è lì, e si mette in marcia con quella mesta fiumana.
La ritirata trascina circa 420.000 profughi, in
un mescolarsi di reduci di guerra, famiglie intere ed animali che defluiscono
faticosamente fino al confine dei Pirenei - dove si arenano. Il governo
francese, spiazzato ed inizialmente incerto sul da farsi, blinda la
frontiera; i disperati si ammassano, aumentano giorno dopo giorno, patiscono
fame, fatica, freddo, dissenteria e tifo. Urla disperate di madri, che piangono
la morte dei figli, rompono il silenzio degli sconfitti.
L'intera Europa è nello stesso vortice. Francia
e Inghilterra han mantenuto l'arrendevolezza dimostrata in Spagna. Hitler ne ha
tratto incoraggiamento ad invader la Polonia. Nel settembre 1939 è ufficiale :
è guerra.
La Francia non può più chiudere gli occhi alle
frontiere, ma certo non srotola tappeti rossi sul cammino dei profughi. Vengono
allestiti tre campi di concentramento politico-militari : a Gurs, Saint-Cyprien
e Vernet. Nei suoi quattro anni di prigionia, dal 1939 al 1942, Giandante li
conoscerà tutti e tre.
A Vernet, alle pendici dei Pirenei, Giandante
rimane dal 5 giugno 1940 al 9 giugno 1942; all'inizio, quando arrivano i primi
prigionieri, non c'è che fango; gli internati scavano buche, improvvisano
ripari con mezzi di fortuna, costruiscono baracche rudimentali giorno per
giorno con le loro mani e il materiale di recupero "gentilmente"
fornito dal governo francese. Vi confluiscono delinquenti comuni e prigionieri
politici di ogni provenienza, sommariamente divisi in settori. Secondo alcuni
resoconti, la disponibilità di cibo e le condizioni igieniche sono perfino
inferiori al livello dei campi di concentramento nazisti. Non c'è alcuna
assistenza sanitaria, a parte la somministrazione di qualunque vaccino
conosciuto, per proteggere la popolazione francese dei dintorni da possibili,
imprecisati contagi .
Nonostante tutto, i prigionieri riescono ad
organizzare infermerie, mense, ma anche attività ricreative, laboratori
teatrali, attività scolastiche.
Anche qui, come sempre, Giandante rifugge ogni
compagnia e relazione stretta, eppure - novello Prometeo - dedica la sua vita
gli altri.
Organizza laboratori d'arte e corsi di storia;
lavora da mattina a sera, esegue una gran quantità di piccoli disegni,
adattandosi alla povertà dei mezzi a disposizione ed utilizzando i materiali e
le tecniche concessi dalle circostanze : foglietti di recupero, colori ottenuti
mescolando terre, ceneri e rifiuti. I temi dominanti sono ancora,
nonostante tutto, animati dalla speranza : uomini in lotta per la costruzione
di una società nuova, rappresentazioni di città del futuro e di schiere di umanissimi
artefici. Scolpisce una colossale statua di Garibaldi - eroico emblema
dell'Italia ideale e pura di cui ha nostalgia - con un improbabile impasto di
fango, sabbia e paglia seccato al sole; i compagni di prigionia fanno a gara
per farsi fotografare a fianco del colosso .
Nei dipinti di Giandante intanto è comparso,
con sempre maggior forza, il colore. Bianco e nero lasciano il passo a rossi
incandescenti, gialli infuocati, verdi ancestrali : cromìe che irrompono con
grande forza espressionistica. Una forza che potremmo dire libertaria.
Ancora una volta, Giandante ha anticipato i
tempi : è approdato a risultati formali d'avanguardia, comuni ai giovani
riuniti intorno a "Corrente", la rivista fondata nel 1938 da Ernesto
Treccani.
"Corrente" evolve rapidamente in
movimento artistico, ispirato ai valori della sinistra internazionale, in
alternativa al "Novecento" affine al regime. Imposterà il suo
messaggio pittorico in funzione sempre più rivoluzionaria. Giandante - verrebbe
da dire, ovviamente - non vi aderirà mai, in coerenza con la sua storia. Eppure
nel dopoguerra alcuni protagonisti di Corrente, come lo stesso Treccani, Dino
Formaggio, Aligi Sassu e Raffaele Degrada riconosceranno il loro debito ideale
nei confronti di Giandante : un maestro per questi giovani che all'alba della
guerra identificavano arte e vita come aveva sempre fatto Giandante.
La lotta per la libertà diviene per questi
artisti il catalizzatore del processo creativo : l'arte nasce anche dalla fame
che non dà pace, dalla paura del prigioniero, dal freddo e dal caldo che a
stagioni alterne scuotono il corpo senza tregua.
Certo è difficile restare umani in un campo di
concentramento, eppure -scriverà Giandante - "anche in una fogna si sogna
".
Giandante, così, sparge un seme di speranza : anche
nei momenti più bui, non perde mai la fede nella libertà. Dipinge,
scolpisce, è in costante ricerca, "per sostituire nell'equazione della
vita la X della libertà a quella della paura ".
Non cessa un attimo di sentire sua la patria
che sente usurpata, e da cui ha dovuto separarsi, ma che non smette di amare in
modo viscerale, ormai struggente.
Aveva scritto nel 1939, in una delle tante
poesie vergate nel campo di concentramento di St. Cyprien, "Madre
(Italia)" : "La madre Italia disse : / <<Che hai fatto figliuol
mio / in terra di Spagna? / come impiegasti la Scienza alta / che illumina come
il sole / tutta l'Umanità? / Ben io so che le tue braccia ardite / ben vendicaron
la / Patria lontana ferita. / Figlio mio ben so che / la testa e le ginocchia /
piegato non han e / non piegheran mai >>.
Quasi tutte le opere realizzate da Giandante
nei campi francesi sono andate perdute - le poche disperse riemergono ogni
tanto dall'oblìo della storia a Mosca, o in Spagna, o nell'Europa dell'Est.
Sono piccoli fogli dipinti, a volte sugli ordini di rimpatrio, che Giandante
donava ai compagni di prigionia e che grazie alle piccole dimensioni potevano
essere facilmente conservati in quaderni o libri : opere che, dove riemergono,
segnalano il ritorno a casa di un combattente volontario per la libertà.
Infatti da Vernet, in un modo o nell'altro, si
esce. Arriva il momento in cui per il governo filonazista di Vichy quei
prigionieri non son null'altro che un peso. Decidono di liberarsene. Giandante
viene consegnato alle autorità italiane.
Nel suo "curriculum" c' è materiale
sufficiente per cinque anni di confino : non serve neppure un processo, è
sufficiente un provvedimento amministrativo della commissione provinciale che
fa capo al Ministero dell'Interno.
Nell'agosto del 1942, viene quindi assegnato
alla colonia penale di Ustica.
Alcune significative regole disciplinari del
confino si posson leggere in un documento conservato da Giandante nel suo
archivio personale : "tenere buona condotta e non dar luogo a sospetti;
non intervenire in pubbliche riunioni o processioni, spettacoli o trattenimenti
pubblici senza speciale permesso; non frequentare postriboli, osterie o altri
esercizi pubblici; non giocare di azzardo nè a qualsiasi altro gioco; non
discutere di politica e non fare propaganda politica in modo anche occulto; non
arrecare molestia di qualsiasi genere e per alcun motivo agli abitanti
dell'Isola, mostrandosi rispettoso verso tutti e specialmente verso le Autorità
Civili, Militari ed Ecclesiastiche ". Non c'è traccia di disegni di
Giandante ad Ustica.
Intanto, nella notte tra il 24 e il 25 luglio
1943 il Gran Consiglio del Fascismo, con l'avallo di casa Savoia, solleva
Mussolini dal comando delle forze armate : è il collasso del regime. Il nuovo
governo Badoglio, anche se riluttante, rilascia tutti gli antifascisti, ma non
gli anarchici (tra cui Giandante), che sono trasferiti nel campo di prigionia
di Renicci-Anghiari : un campo di concentramento nei pressi di Arezzo allestito
originariamente per prigionieri di guerra jugoslavi. Gli internati ammontano
complessivamente a 6.000.
Anche qui le condizioni igieniche sono
indecenti; le riserve alimentari del campo abbondano, eppure le razioni
stremano i detenuti : la fame viene utilizzata come strumento di controllo. La
denutrizione espone alle malattie e "un prigioniero ammalato - dichiara il
comandante del campo - "è un prigioniero tranquillo ". In 150
moriranno di fame. Gli internati restano alla mercè dei carcerieri fino a poco
dopo l'8 settembre : a quel punto l'esercito italiano è già in frantumi,
rassegnazione e sbandamenti dilagano, quando alcune autoblindo tedesche
spuntano all'orizzonte. Le 500 guardie del campo gettano le armi e fuggono, i
prigionieri possono scappare.
Tale è la miseria intorno, che in poche ore la
popolazione locale annienta il campo saccheggiandone ogni briciola : cibo,
arredi, vestiti, persino porte, finestre e le assi delle baracche - tutto
trafugato. Al volger della sera, di Renicci non resta che uno sgradevole
ricordo .
Intanto gli ex-alleati tedeschi occupano
militarmente le città del Nord; tocca quindi agli antifascisti prendere
l'iniziativa organizzando le prime bande partigiane.
La famiglia reale al gran completo, governo al
seguito, va a Brindisi - nelle retrovie; Giandante invece ritorna a
Milano, ancora una volta in prima linea.
Dei venti mesi successivi di Giandante non si
sa quasi nulla, se non che vive in clandestinità e milita come ufficiale di
collegamento della Brigata socialista Matteotti-Fogagnolo, distaccamento della
divisione Pasubio, che combatte fianco a fianco con le Brigate
anarchiche. La sua militanza nella Resistenza è attestata dal lasciapassare
originale della Brigata Matteotti, anch'esso conservato dallo stesso Giandante
tra le sue carte.
La guerra fa il suo corso, la Resistenza fa la
sua parte; così l'occupazione nazifascista termina nella primavera del 1945.
Il tumulto della folla attorno ai cadaveri appesi a piazzale Loreto cala
il sipario sull'ultimo atto della tragedia fascista. Ferruccio Parri,
comandante partigiano, guida il primo governo dell'Italia liberata; poco in
sintonia con gli Alleati, dura solo dal giugno al novembre del 1945. Gli
succede De Gasperi, più allineato "normalizzatore".
Tutto, lentamente, torna "normale". E
come dall'oltretomba, ricompare Giandante - che quasi tutti ancora credevano
morto nella guerra di Spagna. A qualcuno prende quasi un colpo quando,
passeggiando per le strade distrutte di Milano, all'improvviso se lo ritrova di
fronte . Anche Giandante però pare - pare - più "normale" : non ha
più il suo cappellaccio alla Macario, è senza il suo pastrano nero da militare
d'assalto, senza la divisa di velluto che portava in ogni stagione, senza il
cinturone da artigliere, non calza più scarponi chiodati. Ha una giacchetta da
due lire, una camicina a righe un po' triste, una cravatta di pezza. E' in
borghese - proprio lui - con quel nonsochè di umile e banale che l'abito civile
suggerisce. Giandante non pare più Giandante. Di magnetico, di demoniaco, non
gli è rimasto che lo sguardo. Giandante pare saperlo; così, a differenza che in
gioventù - quando ubriacava con le parole - ora preferisce tacere e
fissare gli interlocutori con quegli occhi infuocati. Parla poco ma dipinge e
scrive molto. E' un testimone della barbarie e lo resterà per sempre - è
"l' Uomo che ha visto" : non a caso dà questo titolo ad un volume di
poesie dato alle stampe nel 1946.
Dal '46 al '48 edita quattro pamphlets di
liriche, scolpite - secondo Dino Formaggio - in "una materia linguistica
incandescente " : emerge da 25 anni di lotta, isolamento, prigionia, per
dedicare i suoi versi a "tutta la gioventù che ha tanto sofferto ".
Da lui non esce una parola d'odio : solo umana, quasi ascetica, monacale compassione
per la terribile bestialità degli uomini - di cui pure i carnefici sono
vittime.
Ha visto molto e ha molto da dire. Nel maggio
successivo ha già pronta una mostra per la Galleria dell'Annunciata di Bruno
Grossetti, luogo cruciale dell'Arte a Milano. Espone immagini di uomini e
donne al lavoro, folle in festa, danze. Giandante pare voler curare coi
colori le piaghe di un paese di reduci. Ma anche in quei colori c'è un
sottofondo cupo, sordo e crudo, non consolatorio, sintetizzabile in
un'annotazione di Raffaele Degrada : Giandante "fa brillare i colori come
si fa brillare una mina ".
Anche qui, come nota Leonardo Borghese -
critico d'Arte del "Corriere della Sera" - l'arte di Giandante palesa
un interesse morale e sociale. Borghese sottolinea che "Giandante ebbe
sempre il merito di non considerare l'arte come attività autonoma ", dalla
vita ovviamente. La mostra all' Annunciata è un grande successo : il pubblico e
la critica sono unanimi, la partecipazione ed i giudizi positivi di Raffaele De
Grada, Giulia Veronesi, Alfonso Gatto tra gli altri, sono la prova del
prestigio di cui Giandante ancora gode presso molti operatori del settore.
Per un po' quest'onda culla Giandante : per
tutti gli anni '50 e i primi anni '60 si susseguono numerose le mostre nelle
Gallerie milanesi.
Giandante dipinge volti, fiori, e soprattutto
montagne grondanti colore, masse emblematiche : sono i Pirenei che guardava dal
campo di concentramento in Francia, il suo miraggio di libertà e assieme la
cortina di roccia oltre la quale suoi compagni subiscon le vendette dei
vincitori . Sono colossi di pietra, granitico rifugio dei partigiani e assieme
trappola mortale. Sono archetipi morali che sfidano lo spazio e il tempo,
tragicamente ambivalenti. Ormai nella pittura di Giandante tutto è simbolo. La
sua tecnica prediletta, quasi l'unica che utilizza ormai, è l'encausto : colori
sciolti nella cera bollente . Non a caso, l'encausto - etimologia greca :
letteralmente "bruciare dentro".
Negli innumerevoli volti che Giandante dipinge
- volti che non son mai ritratti ma figure simboliche, Uomini assoluti - molti
vedono il Cristo. Certo non è quello l'intento figurativo esplicito di
Giandante, eppure in qualche modo in ognuno di quei volti veramente c'è un
Cristo - come in Rouault : un eroe umano, troppo umano, il cuore dell'Universo,
il centro della Storia. Aveva ammonito Kurt Tucholsky - poeta, scrittore e
giornalista tedesco - feroce critico della sua Germania ai tempi del Nazismo
nascente, morto suicida nel 1935 : " E quando tutto sarà passato,
quando tutto questo si sarà esaurito : l'ebbrezza di incedere in massa e
di agitare bandiere in gruppi... Allora ci sarà uno che farà una scoperta
addirittura clamorosa : scoprirà l'individuo. Dirà : c'è un organismo chiamato
uomo, ecco l'importante. E la questione è se questi è felice. E lo scopo
è che sia libero. I gruppi sono secondari... lo Stato è qualcosa di secondario.
L' importante non è che viva lo Stato - l'importante è che viva l'uomo".
L'Uomo. Il centro della vita di Giandante.
Giandante all'inizio mantiene i contatti con i
galleristi ma il suo tarlo, inesorabile, lo rode da dentro. Il suo passato, il
suo carattere granitico e duramente forgiato dalla Storia, non gli consentono
diplomazie nè vie di mezzo. E' assetato di assoluto, ma attorno a sè trova ben
poco a cui abbeverarsi e scivola, inesorabilmente, ai margini della società.
Nota efficacemente Roberto Farina : "Quasi nessuno sa del suo passato, non
racconta della militanza antifascista, né della guerra, né della prigionia. Non
segue mode, non firma manifesti, non ha partito. I dibattiti e le polemiche di
gruppo tra artisti e mercanti, nei caffé, nei salotti e sui giornali, non lo
interessano adesso più di quanto lo interessassero prima della guerra ".
Così, mentre gli artisti stringon sodalizi tra
di loro, e con sindaci e assessori, Giandante - diffidente, solitario, sempre
venato d’un laico misticismo quasi ascetico - si isola progressivamente nella
casa-studio di via Senato.
Scrive di sè : "(...) La collettività
voleva che collaborasse; egli si ritirò e si rinchiuse cercando quello che gli
altri non potevano capire : il mondo della miniera sua interna che doveva poi
così terribilmente e lentissimamente scoprire come in un parto agonico. (...)
Cercarono dei borghesi venali di corromperlo ma nella sua solitaria solitudine
si armò di un'arma così sottile ed audace (la dialettica del paradosso) che,
con la serenità sua tanto sconcertante, un nuovo invito sarebbe stato
offensivo. E' da poco, dopo molti anni, che il Viandante è uscito dalla foresta
e si avvicina all'alito umano, ma, come un barbaro, al primo rumore punta i due
carboni accesi, gli occhi senza ciglia, come per intravvedere nel buio la luce,
e diffida (...)".
Nessuno - neanche i suoi più vicini e sinceri
estimatori - riesce ad arginarne la caparbia auto-reclusione. Forse nessuno -
nel "sistema" dell'Arte - davvero lo vuole. "Giandante deve
rimanere un mistero" dirà di lui Gabriele Mazzotta, lo storico
editore milanese.
Scrive di lui Leonida Repaci nel 1958 : "
(...) Su questo artista che, se fosse nato a Parigi, avrebbe oggi una fama
mondiale, tutta una letteratura su di lui, la nostra critica qualificata ha
sempre sdegnato d' impegnarsi a fondo, per assegnargli il posto rilevante che
gli spetta nell'arte contemporanea. (...) A Venezia Giandante non è mai stato
invitato... (...) Morirà un giorno, per davvero, Giandante lascerà questa
amara terra alla quale egli ha dato tutto, dalla quale tanto poco ha ricevuto,
e quel giorno (...) i critici (...) porteranno sulle spalle la pesante
responsabilità di aver incontrato Giandante sul loro cammino, senza capire il
profondo significato di un'arte che ha bruciato tutta la polemica estetica del
suo tempo, per dar vita, in forme originalissime, a una nuova mitologia
dell'uomo per una società finalmente affrancata dalla paura" .
Frequenta, del tutto saltuariamente, qualche
compagno di strada : tra questi, Giovanni Pesce ed Onorina Brambilla - medaglie
d'oro della Resistenza; Leonardo Repaci; Gino Traversi; ben pochi altri.
Lascia questo mondo nella sua Milano, in
solitudine, nel 1984.
Il giovane e colto figlio di ricchi borghesi
che ha abbandonato tutto, persino il nome, ribattezzandosi "X" - la
firma degli analfabeti, il "signor nessuno" - per riconquistarsi
tutto da capo ed essere davvero libero, chiude finalmente il suo cerchio.
Riconoscendo la profondità e sincerità del suo
messaggio artistico e poetico, nel 1988 la provincia di Milano gli conferisce
la medaglia d'oro per meriti artistici e civili. Qualche mese dopo, la
Fondazione Corrente costruisce attorno a lui una Mostra fondamentale : "Le
avanguardie dimenticate". Milano risponde quasi in tacito, concorde
omaggio : il pubblico affluisce a frotte, rendendo onore a quella X - "una
cicatrice unica ma uguale a tutte le ferite del mondo ". Una ferita
tormentata - come per milioni di Europei - dalla politica, dalla Storia del
'900.