Samuel Beckett Proust SugareCo maggio 1979, brossura editoriale buone condizioni vedesi immagini 

È molto probabile che il Proust di Beckett sia un saggio che interessi maggiormente i beckettiani che i proustiani. Più che un saggio di critica letteraria sul grande scrittore francese, infatti, questo Proust ci appare (tanto più oggi a diversi decenni di distanza dalla pubblicazione) come il brogliaccio filosofico da cui Beckett avrebbe poi sviluppato tutte le sue opere future.
Il tempo è, guarda caso, il concetto che ha portato Beckett alla stesura del saggio su Proust. Nell’estate del 1930, Beckett aveva infatti vinto con la sua Oroscopata un concorso poetico organizzato dal romanziere Aldington e dalla poetessa Cunard cui potevano partecipare poemetti inediti che avessero per tema, appunto, il tempo. Aldington fu così sorpreso dalla prova di Beckett che non solo caldeggiò il suo primo posto, ma arrivò a proporre il giovanissimo e allora totalmente sconosciuto Beckett alla casa editrice Chatto & Windus come autore di un saggio su Proust per la nuova collana dei Dolphin Books.
Prima ancora di ricevere una conferma da parte dell’editore, Beckett iniziò subito a stendere il suo studio ricorrendo allo stile erudito ma impertinente che caratterizza quella fase della sua poetica (“[…] questa infinita serie di rinnovamenti ci lascia altrettanto indifferenti quanto l’eterogeneità di tutti i suoi termini, e l’inconseguenza di ogni dato non ci disturba più della commedia della sostituzione. E invero noi abbiamo una minima conoscenza sia dell’uno che dell’altro dei suoi termini, salvo, fumosamente, dopo l’evento, o chiaramento quando, come nel caso di Proust, la gallina di domani si un valore infinitamente superiore all’uovo di oggi, e questo perché – se mi si concede di mescolare questa noce vomica ad un aperitivo di metafore – il cuore del cavolfiore o il centro ideale della cipolla sarebbero un tributo assai più adeguato al travaglio dell’escavazione poetica che la corona d’alloro […]”). Ma al di là di questi exploit al limite del demenziale il Proust presenta un sincero scavo sui temi dell’abitudine, della memoria e del tempo con i quali Beckett lavorerà per tutta la vita, come nota bene anche Sergio Moravia nella sua introduzione all’edizione SugarCo 1994. Dirà ad un certo punto Beckett nel saggio: “La memoria, un gabinetto medico provvisto di veleni e contravveleni, di eccitanti e di sedativi“. Parla della Recherche, ma quante volte i suoi personaggi sono ricorsi a quelle alchimie. Margherita S. Frankel, nel suo Beckett e Proust: il trionfo della parola (in SE, 2004) tenta invece un parallelismo tra il particolare assurdo di Beckett e il presunto assurdo di Proust: “[…] Si è molto parlato di una derivazione joyciana per l’opera di Beckett, ma l’affinità con Proust appare molto più sorprendente, anche se è allo stesso tempo più sottile e latente, e non si può certamente rilevare nello stile scarno di Beckett, dove non si dispiegano le immagini, le metafore e la sontuosa sinuosità che sono tra le caratteristiche più notevoli della lingua proustiana […] Beckett si presenta a noi quasi come una continuazione di Proust, come un Proust che sarebbe vissuto trent’anni più tardi, in un mondo apocalittico che non ha più niente in comune con il mondo che precedette la Prima guerra mondiale […]”.


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