ai confini della storia vol. 41 e 42


Boaz Yakin & Nick Bertozzi

GERUSALEMME 1 - 2

Jerusalem : a family portrait - complete graphic novel


la superba collana di sconfinamenti storici della gazzetta propone integralmente la magnifica graphic novel con la cronaca accurata ed accorata dell' ennesima (sia pure ancora limitata e circoscritta) liberazione della città di Gerusalemme, ovvero l' ultima in ordine cronologico, quella del 1948 da parte degli irriducibili ed esasperati figli di David appena scampati alla shoah

un lungo racconto a fumetti dettagliato ed emozionante, sceneggiato dal regista prestato (in cambio di un congruo compenso in denaro, naturalmente) al fumetto Boaz Yakin, con moderazione obiettiva e parzialità oggettiva, offrendo una verosimile, minuziosa e quasi equanime narrazione romanzata a partire dalla ultima decisiva ondata migratoria sionista nei territori palestinesi occupati, sotto la complicità ostile del protettorato britannico, fino alla definitiva guerra civile contro gli sfrattati arabi e alla fatidica instaurazione del moderno stato israeliano, quello in perenne stato d' assedio ma sempre all' erta e armato fino ai denti, protetto e sorvegliato dall' occhio vigile e a volte un po' vergognoso di Mosè

il calibrato e dosatissimo Nick Bertozzi come da sua ormai consolidata prassi non spreca mai linee nè segni dando il meglio di sé e facendosi in quattro per emulare e ricalcare Eisner senza peraltro ovviamente riuscirci ma il risultato grafico di organizzazione e struttura del racconto nella articolazione dinamica delle tavole e nella sequenzialità ritmica delle immagini è ugualmente discreto anzi tutto sommato oltremodo efficace, gradevole e più che apprezzabile 

i fatti storici si intrecciano con le vicende umane di una famiglia giudea allargata dove i due patriarchi tanto per cambiare litigano tra loro per questioni di soldi, ma al di là degli inossidabili pregiudizi e degli squallidi luoghi comuni ne scaturisce possentemente un emozionante affresco poetico celebrativo ed esaltante di una comunità etnico-religiosa degna tuttavia a priori di stima e rispetto, anche se -nonostante le fasulle e pretestuose intenzioni di neutralità dichiarate preventivamente dagli autori- la ricostruzione risulti un po' sbilanciata e con un sensibile occhio di riguardo verso la sponda di coloro che secondo le malelingue ed i negazionisti l' 11 settembre 2001 al WTC pare non ci fossero proprio, ma di sicuro comunque c'erano - e numerosi - ad auschwitz , a mathausen, a bergen-belsen, a dachau e in molti altri mattatoi eugenetici e centri di igienizzazione razziale della civiltà moderna

 

questi due stupendi volumi raccolgono tutto l'intero romanzo a fumetti

collezioni memorabili / AI CONFINI DELLA STORIA - collana in abbinamento editoriale al quotidiano LA GAZZETTA DELLO SPORT, edizione a cura di Panini Comics, note di approfondimento di Fabio Licari, 2016 , 2 volumi cartonati per 424 pagine totali , formato cm. 21,8x29,3 

CONDIZIONI : ENTRAMBI I VOLUMI SONO NUOVI


Il racconto di Gerusalemme (testi di Boaz Yakin e disegni di ) copre il periodo che va dall’aprile 1945 al giugno 1948 e narra le vicende della famiglia Halabi (da cui il sottotitolo Un ritratto di famiglia), che si intrecciano con quelle della nascita degli stati di  e Palestina all’indomani del secondo conflitto mondiale e del ritiro britannico dalla regione, temperie storica affrontata recentemente anche da Luca Enoch e Claudio Stassinel loro La Banda Stern.
La famiglia Halabi è divisa in due rami, con a capo rispettivamente Izak e Yakov. Il primo, ricco commerciante, approfitta delle difficoltà economiche del secondo per umiliarlo e pretende che il proprio figlio Jonathan nutra verso la famiglia di Yakov il suo medesimo disprezzo. D’altra parte, Jonathan è compagno di scuola di Motti, ultimogenito di Yakov, e fra i due si sviluppa nel tempo un’amicizia, che subisce e si nutre anche dei drammi della cronaca. La famiglia di Izak, grande di numero e che seguiamo più da vicino, è a sua volta attraversata da tensioni quasi laceranti fra i suoi componenti.
Il risultato è un’estrema infelicità quotidiana: guidate dall’istinto di sopravvivenza, costrette a difendersi da tutto ciò che le circonda, le due famiglie, pur sperimentando approcci totalmente diversi all’esistenza, non solo non riescono a evitare alcuna sofferenza, ma addirittura le amplificano al proprio interno. Cosicché, più che rifugi, i due nuclei sembrano solo ulteriori campi di battaglia.
L’unico spiraglio di una diversa visione sembra offerto dalla passione per il teatro, che il piccolo Motti, eccellente lanciatore di pietre in strada, appassionato lavorante dietro il sipario, scopre per caso e inizia a coltivare quasi inconsapevolmente, arrivando a imparare a memoria il testo delle opere di cui segue l’allestimento. È la passione per un qualcosa lontano dal mondo circostante, lontano dalla vita quotidiana e dai suoi orrori; qualcosa che, sembra sostenere il finale dell’opera, da solo tuttavia non basta a fondare una speranza che sia in grado di affrontare gli odi che imperversano fuori dal teatro.

Le dinamiche messe in scena rendono ragionevole considerare le vicende della famiglia Halabi come un’allegoria di quelle dei popoli che abitano l’ex mandato britannico. Passioni incancrenite, sedimentate e introiettate dagli individui, che hanno trasformato quello scenario geopolitico in espressione del linguaggio corrente, come segnala implicitamente (inconsapevolmente?) Sarah Glidden nel suo Capire Israele in 60 giorni , che si riferisce alla vicenda israelo-palestinese chiamandola “la situazione”. La convivenza fra arabi e Israele è passata di fatto da questione politica a elemento del discorso, logorato e destinato a perdere di senso. La “questione arabo-israeliana” come le “mezze stagioni”: un modo di dire e non uno stato di cose che si pensa verrà mai risolto ragionevolmente e politicamente.
Yakin e Bertozzi mostrano la fondazione di questa irrisolvibilità: è la forza di leva dell’odio, che porta la morte nel più crudele dei modi e garantisce carriere, rapporti di forza, ruoli di organizzazioni e partiti in un gioco di potere cinico. Come il ricco Yakov, che vuole trasmettere al figlio la propria ricchezza e il proprio odio verso la famiglia del fratello come un combinato inscindibile (indicando così una visione del mondo), così i poteri delle varie fazioni muovono le persone. Come Yakov non vuole che l’amicizia fra il proprio unico figlio e il minore dei figli di Izak porti al riavvicinamento dei due rami familiari, alla loro convivenza pacifica e costruttiva, così forze, apparentemente opposte delle fazioni in lotta, oggettivamente collaborano nel perpetuare l’odio su cui basano il proprio potere.

Dell’opera, spiace particolarmente il finale, che nella sua miscela di tragedia e fatalismo non consente alcuna remissione della brutalità e dell’odio che permeano capillarmente le vicende narrate. Il sentimento risultante è un vuoto di speranza, una vertigine di fronte a forze inarrestabili, quasi oltre la possibilità dell’intervento umano, quasi che l’attenzione divina verso la città tre volte sacra si manifestasse in un costante accanimento nel soffiare sulle braci delle rivalità.
Rivalità tra popoli, tra fazioni, tra famiglie, tra individui.
Una sorta di fenomeno frattale, che guida le azioni dei vari attori a qualsiasi livello.


Bertozzi supporta il racconto con attenzione all’espressione delle emozioni degli individui, delle tensioni che si irradiano dagli sguardi e dai corpi. Le inquadrature sono ravvicinate i campi lunghi e panorami sono centellinati, così che il lettore si trova quasi sempre faccia a faccia con i personaggi, accanto a loro in ambienti ristretti, spesso soffocanti; il riempimento dello spazio della vignetta da parte delle figure umane trasmette anche la saturazione emotiva, provocando un diffuso e quasi ossessivo senso di claustrofobia.
Il risultato è uno scenario politico e sociale grottesco, perfino surreale, dove la paranoia è la condizione mentale ordinaria, come mostra Guy Delisle nelle sue Cronache di Gerusalemme. 
Di fronte a ciò che sono in grado di muovere le forze avverse alla pacificazione (gli Yakov delle varie comunità e fazioni), qualsiasi spinta costruttiva, come l’arte e la ragione (rappresentate dal teatro di Shakespeare amato da Motti) o come l’umana solidarietà (qui l’amicizia fra Jonathan e Motti) devono arrendersi.

 

La Palestina. Dire che questa piccola striscia di terra è uno degli stati fra i più tormentati e sanguinosi nell’ultimo secolo è dire poco. Facciamo un piccolo riassunto storico per rinfrescarci la memoria.


La Palestina fino alla fine della prima guerra mondiale non esisteva da un punto di vista prettamente geo-politico in quanto parte del buon vecchio Impero Ottomano. Solo dopo la fine della guerra questa regione passò al controllo Britannico (assegnazione avvenuta già in precedenza in modo segreto con l’accordo Sykes-Picot) che, comportandosi in modo elegante e democratico, volle creare un punto di riferimento per gli ebrei di tutto il mondo. Stiamo parlando dell’accordo di Balfour che affermava più o meno queste parole:
“La buona vecchia mamma Gran Bretagna è favorevole che si crei in Palestina una casa per tutti gli Ebrei del mondo”, aprendo quindi, di fatto, la possibilità della creazione di uno stato ebraico.
“Ma che brava, la Gran Bretagna!” verrebbe da affermare “Bravi! Hai capito che brava gente i Tommy!”
Beh no, insomma.

Perché fino a due anni prima la stessa Gran Bretagna aveva promesso agli arabi della regione praticamente la stessa cosa:

“ La Palestina sarà vostra, una bella grande nazione araba. Vi suona bene, vero? Ma nulla, milords, è gratis. Dovreste giusto fare una cosuccia per noi, roba da poco per gente forte come voi. Beh, dovreste insorgere in massa e dilaniare dall’interno l’Impero Ottomano.”
Gli arabi non aspettavano altro. Allahu Akbar e si scatenarono. Impero Ottomano lacerato e vittoria easy
delle forze britanniche.
Inutile dire cosa accadde quando due anni dopo la stessa terra venne proclamata come polo d’immigrazione ebraica dalla stessa Gran Bretagna: agli arabi girarono i coglioni. E non poco.
Elegantemente e con il mignolo alzato, lo stato di Sua Maestà fece giusto un passo indietro con la Carta Bianca del ’22: “Ma no, noi non vogliamo mica dire che la Palestina debba essere Ebraica, mio caro Husayn ibn Ali, solo che si può sviluppare meglio una comunità ebraica già esistente nel pieno rispetto dei diritti civili di tutti e con fraterna armonia con popoli di altre religioni, milords.”

Non servì a un cazzo.
Dal ’22 al ’47 le rivolte e le scaramucce reciproche furono all’ordine del giorno.

Fra le tante abbiamo la Grande Rivolta Araba del ’36. A quest’ultimi, infatti, l’ambiguità britannica iniziò ad andare di traverso e insorsero proprio contro le truppe di Sua Maestà. Gli ebrei non si tirarono certo indietro e, per difendere la Carta Bianca (che comunque assicurava l’immigrazione in Palestina di un gran numero di ebrei) scesero in campo con la neonata Haganah, organizzazione paramilitare ebraica forte di 14 mila e passa uomini.
Tre anni dopo la rivolta fu conclusa. Vittoria Britannica ufficiale, ma non del tutto: la carta bianca sarebbe stata attiva, ma solo per altri 5 anni. Stiamo parlando della Carta Bianca del’39 che imponeva severe restrizioni riguardanti l’immigrazione ebraica.
Questa non ci voleva. E’ pur sempre il ’39 e in tutta Europa si scatenerà l’armata Nazista. Se proprio ci doveva essere un momento per non bloccare l’immigrazione ebraica, beh, doveva essere quello.
Una via d’uscita era stata tuttavia già proposta nel 1937: la Commissione Peel, britannica, propose la spartizione della Palestina in due stati: uno arabo e uno ebraico.
“None, ma non l’avete capito che vogliamo ammazzarci male?”
Rifiutata da ambo le parti.

Ecco: è questo lo scenario, fra il 1944 e il 1948, in cui si inserisce Gerusalemme, splendida graphic novel di Yakin e Bertozzi.
Questo comic book è in grado di catapultare direttamente nella storia di quegli anni e di far capire quanta violenza e quanta sofferenza sia stata presente, ed è presente tuttora, in questa terra.
Qual è il clima che affrontiamo addentrandoci in questa storia?

 E’ tutto più che tragico: la guerra infiamma in Europa e più di 30 mila ebrei palestinesi, nonostante la Carta Bianca del 1939, decidono di arruolarsi nell’armata britannica per combattere le forze naziste.

Nello stesso momento abbiamo l’azione di forze migratorie illegali che immettono in Palestina un ingente numero di ebrei, questi successivamente si uniranno all’Haganah o ad altri due gruppi militanti: l’Irgun e la sua derivazione più radicale, la banda Stern. Quest’ultima prende il nome dal suo fondatore Avraham Stern, giovane e carismatico ebreo polacco il quale sosteneva che l’espulsione delle armate britanniche dalla patria sionista era una causa sacra, più urgente persino della sconfitta nazista.

Non è finita qua. Nella Gerusalemme della nostra famiglia Halaby nascono giovani militanti rossi che, spinti dallo spirito stalinista, decidono di metter da parte le differenti religioni così da creare un unico nuovo partito comunista palestinese. L’accantonare le religioni per unirsi ad un unico ideale politico, però, non è certo cosa che ingoiano tutti facilmente in un clima del genere.
Come se la situazione non fosse abbastanza bollente e pepata ecco che al malloppo si aggiunge anche la votazione delle nazioni unite del 1947 per la divisione di due stati separati, uno arabo e uno islamico.
L’esito della votazione sarebbe stato ininfluente e la guerra fra arabi e ebrei, come già annunciato dal rifiuto della Commissione Peel, sarebbe avvenuta comunque.

I nostri protagonisti sono quindi costretti a districarsi fra i dolori e le incertezze di un paese lacerato nell’anima e controllato severamente dalle armate britanniche. Il dramma che scorre attraverso le pagine è graduale e ben dosato e sfocia nell’inizio della guerra fra musulmani ed ebrei a seguito della votazione del ’47.

La distruzione del quartiere commerciale di Gerusalemme, gli agguati sulla strada per Tel Aviv, la gelida indifferenza britannica davanti alle orribili violenze dei ribelli arabi, la carenza di viveri e l’odio reciproco sono tutti fattori che possono toccarsi con mano. Possiamo percepire l’odore del sangue che scorre, il dolore delle madri nel prendere in braccio i cadaveri dei loro bambini, il fumo denso della cordite e il profondo disprezzo che scorre fra questi due popoli in grado di bruciare fino al midollo una nazione.

Gli ebrei in questo non sono da meno. Il loro attacco a Der Yassin è raccontato con incredibile lucidità e una vena drammatica scorre su tutta la china. Le pagine sono tetre e scure non solo per i fantastici toni di grigio che caratterizzano tutta l’opera, ma per la pura espressività dei volti terrorizzati o carichi di vendetta dei personaggi.

Gli autori dopo aver introdotto i protagonisti di questa famiglia, averli caratterizzati, datogli uno spessore con dialoghi, speranze e storie personali li prendono e li catapultano in un contesto storico reale facendoli soffrire in modo atroce e terribile. E questa non è la classica sofferenza da comic supereroistico a cui siamo tanto abituati. Non è il solito Peter Parker o Matt Murdock che il Bendis di turno riempie di tragedie giusto per realizzare una storia e far vedere come il nostro eroe sia in grado di riprendersi.
No. Questa è vera agonia, vero dramma e tragedia che ci prende e ci morde alla gola facendoci sudare freddo mentre giriamo le pagine.
E la cosa peggiore, la cosa che fa più riflettere, è che ai nostri protagonisti, tutto sommato, va pure bene.
La sofferenza per le strade è così grande che non c’è da dispiacersi per qualche piccola sofferenza che loro son costretti a sopportare. Che cos’è la violenza gratuita su un bambino, l’odio fra due fratelli e la rottura di un’amicizia se messi a paragone con lo strazio di una bambina di cinque anni che prova a rianimare il cadavere a pezzi di sua sorella? Nulla.

 

Attraverso una narrazione capace, lucida, concreta e realistica Yakin ripropone in chiave fumettistica un sanguinoso frammento di una storia toccante e commovente. I suoi personaggi sono credibili, caratterizzati alla perfezione con le loro debolezze e le loro virtù. La sua capacità di aver unito i tantissimi ingredienti storici che caratterizzano tale complesso periodo storico in modo così efficace è stata davvero sorprendente. Bertozzi, con la sua china ruvida, con le profonde ed espressive sfumature di grigio e con la linea spessa, è in grado di dipingere ai nostri occhi un lungometraggio crudele e profondo. Le sue espressioni sono realistiche, nessuna mezza censura e nessuna esagerazione. L’ansia e l’agonia sono sottolineate dall’utilizzo di una vignetta riempita quasi interamente dai volti e dalle ambientazioni. Non vi è spazio o respiro, è tutto incredibilmente claustrofobico e questa scelta stilistica non fa che aumentare la sensazione di disagio che aumenta man mano che sfogliamo le pagine. Il chiaro scuro è fenomenale: si imprime negli occhi del lettore e non lascia scampo alla tensione che attraversa tutta la graphic novel. Fra le scelte stilistiche degne di nota che impreziosiscono l’opera abbiamo l’utilizzo della vignetta scontornata (che aiuta ad esaltare la conclusione di una sequenza), grandi campi lunghi orizzontali su due pagine e serie di vignette isolate su sfondo bianco (che evidenziano la drammaticità di un momento) e un utilizzo frequente di uno schema “non regolare” che permette una lettura dinamica. Un’opera completa, ben studiata e storicamente valida, piccolo capolavoro che dovrebbe essere divorato da appassionati del fumetto e non. Come disse infatti Etgat Keret riguardo quest’opera: “Dieci misure di bellezza scesero nel mondo, nove le prese Gerusalemme.”